Era il 1963 quando Rudolf Wittkover, uno degli animatori del pioneristico Warburg Institute di Londra, dava alle stampe Nati sotto Saturno, testo scritto a quattro mani con la moglie Margot, e che diffuse e sedimentò nell’immaginario collettivo la figura dell’artista come essere profondamente conturbato, solitario, malinconico, alienato; con buona pace di personaggi esuberanti come Picasso, stravaganti come Dalì, frequentatori dei salotti dell’alta borghesia come Matisse. E la lista sarebbe molto più lunga.
Lo studioso tedesco opponeva questo temperamento saturnino al vivace pianeta Mercurio, più indicato, a parer suo, a proteggere la categoria più realistica e d’azione degli artigiani.
Obiezione: l’elemento mercuriale è notoriamente legato al mondo esoterico, esso rappresenta l’androgino, la materia instabile che occorre alla trasformazione alchemica degli elementi. Esso si lega ai misteri, conduce le anime nell’aldilà, e un’incisione del Cinquecento ci mostra Hermes (Mercurio) con il dito alla bocca in segno di silenzio: le verità ultime sono un segreto indicibile.
Non ci sembra peregrina, dunque, l’idea che in realtà l’artista sia anche un po’ figlio di questo dio scaltro e beffardo ma anche sapienziale. E non è arbitrario legare etimologicamente la parola “immagine” con “magia”, dato che entrambe provengono dalla radice greca che richiama l’atto di “impastare” la creta con la quale i pitagorici plasmavano le statuette votive.
Un po’ alchimista, dunque, l’artista gioca con gli elementi a sua disposizione (forme, colori, materiali) per renderci una figura il cui significato non sarà mai definitivo, ma “un indovinello che resta all’indovina” (sono parole di un filosofo del calibro di Adorno) con la sconfitta prestabilita del giocatore. Non è raro imbatterci in riferimenti al mondo esoterico, ai giochi di carte, fino ad arrivare all’estrema conseguenza dell’enigma come ultima possibilità di significato, e ad utilizzare le tecniche del rebus per comporre quadri, come cercheremo nel corso del tempo di far conoscere al lettore, se avrà il piacere di continuare la lettura di questa rubrica.
Soprattutto con gli autori del ‘900 è più evidente la fine di un linguaggio tradizionale che aveva la pretesa di spiegare tutto e che incastrava gli eventi tra un inizio e una fine ben definiti. Gli artisti cercano un linguaggio alternativo, che si sbarazzi della consecutio temporum e delle certezze, passando per il tempo della crisi dove tutto si frammenta e il linguaggio stesso, verbale o visivo, sia quello da filosofo presocratico che”accenna” e non rivela, e che fa suo il motto eracliteo “il tempo è un bimbo che gioca con le tessere di una scacchiera. Di un bimbo è il regno”.
Ecco fare la loro comparsa il cavallino dei dadaisti, la risata di Zarathustra, l’orinatoio da museo di Duchamp, i manichini dechirichiani, i pupazzetti di Klee, i quadri sotto allucinogeni di Dalì. Non si tratta solo di provocazioni, ma di un gioco molto serio che tenta di stabilire il ruolo dell’arte e lo statuto dell’immagine.
“Artemagazine” propone da oggi una nuova sezione ai suoi lettori, Nati sotto Mercurio, che tenterà attraverso frammenti sparsi di storia dell’arte di dare un’idea generale del secolo appena trascorso, nel suo continuo dialogo con i secoli che lo hanno preceduto e con il nostro attuale, seguendo l’incessante migrazione delle forme nel tempo e nello spazio. Non seguiremo un ordine cronologico, ma i temi andranno ad affiancarsi come nella biblioteca pensata da Aby Warburg, dove gli oltre 350.000 volumi sono esposti su scaffali aperti e associati non secondo i canoni della biblioteconomia, ma secondo “un’aria di famiglia”. Arte accanto a letteratura accanto a storia accanto a libri di scienze: ecco che si possono aprire in questo modo percorsi del tutto personali e molto spesso inaspettati.
Così in questa rubrica cercheremo di seguire il filo invisibile che crea parentele impreviste tra le forme, non un manuale di storia dell’arte, ma un progressivo dipanarsi di storie che traggono la loro consequenzialità non dal tempo ma dalle suggestioni, dalle idee, che scorrono in controluce attraverso i protagonisti, e che spesso verranno richiamate alla mente da analoghi eventi tratti dal nostro vivere attuale.
Questo metodo è stato affinato e collaudato in prima persona negli anni della mia formazione come storico dell’arte, quando, fresca di laurea, passavo i pomeriggi nello studio di Marisa Volpi, aiutandola nelle ricerche. Critica militante della graffiante Roma degli anni ’60 e ’70, professoressa di calibro alla Sapienza, raffinata scrittrice dagli anni Ottanta in poi, Marisa mi ha trasmesso quell’intima esigenza per uno studioso di riconoscere le somiglianze e collocarle in una linea storica. Diceva che era “il sogno del permanere nel trasformarsi, che anche gli artisti come gli storici dell’arte sembrano coltivare pur colloqu«iando a distanza di secoli”.
Sarà l’istinto del nostro essere umano di tendere all’immortalità? Forse anche una sottile vanità nel trovare un riflesso di noi in ciò che più ci piace.
“Lei dubita che, in natura, possano verificarsi parallelismi geometrici così sbalorditivi?…Ma sa perché ho studiato Poe con tanta pazienza? Perché mi assomigliava” vi risponderebbe Baudelaire.
Michela Santoro