Il 2015 è stato scelto dall’Unesco come Anno Internazionale della Luce, per la ricorrenza – quasi cabalistica – del numero 5 negli anni che hanno segnato le più importanti scoperte nella storia della fisica sulla luce. Ora che il 2015 sta terminando, abbiamo deciso di portare anche noi la nostra riflessione su questo tema, o meglio, su uno dei tanti aspetti con cui l’arte l’ha interpretato. L’occasione ci è stata offerta dalla mostra Luce. Interpretazioni contemporanee, a cura di Loredana Finicelli, presso la Galleria ArtOttica di Paola Zucchini, attivo punto di raccordo per talenti contemporanei nel cuore delle Marche. Il nostro contributo critico ha voluto focalizzare l’attenzione sull’aspetto trasfigurante della luce, ed il suo “mistero diurno”; e Mercurio non poteva non rimandare alla sua Grecia.
“La luce è quanto di più giocondo esista:
è il simbolo di tutto ciò che è buono e che guarisce.
In tutte le religioni, essa significa la salvezza eterna”
A. Schopenauer
Per definire un concetto a volte la soluzione migliore è affidarsi all’etimologia, prendere la parola, aprirla come un guscio e sentirne l’umore interno. Sperimentiamo questo procedimento con la parola “luce” e scopriamo che essa è indissociabile dalla manifestazione del sacro, anzi ne costituisce il segno: le sue radici sanscrite, infatti, sono dyauh (cielo) e diviyah (luminoso, splendente) che, per greci e latini, hanno avuto come esito Διός (genitivo di Zeus) e l’arcaico dius (=divus).
Non a caso un pittore come Matisse, ispirato, per sua stessa ammissione, dall’atmosfera e dalla cultura orientale, suggella la sua continua ricerca del sacro associando il proprio senso del colore ad un “bisogno” di luce, esige che il suo dipinto e il suo disegno posseggano, come si legge nei suoi scritti, “il potere di generare veramente la luce”.
Potremmo citare innumerevoli esempi di traduzione artistica: dalla scientificità “emozionale” degli impressionisti a quella da laboratorio del pointillisme, dalla primitiva sacralità degli ori bizantini – che più che riflettere emanano luce – alla moderna elettricità eroicizzata dal futurismo, dai tubi al neon dell’arte del secondo dopoguerra alle emissioni di impulsi elettrici della videoarte e i pixel delle nostre immagini contemporanee. In questo tracciato si inscrivono miriadi di artisti, ognuno con la sua personale interpretazione. Il titolo che abbiamo, però, scelto per questo breve excursus ci rimanda ad una quasi “personificazione” della luce ed è in questa forma che abbiamo deciso di affrontarla.
“L’ora del dèmone meridiano” è una definizione di Alberto Savinio, il quale, al pari del fratello Giorgio de Chirico, rimanda fatalmente all’humus nietzscheano. Entrambi riflettono sul continuo gioco tra luce ed ombra, confinato in quell’attimo fatale dell’ora dell’enigma, il meriggio. In questo si richiamano alla Grecia dove sono nati, una Grecia “metafisica” fortemente connotata dalla visione “sacra” della luce, attraverso la lente inevitabile di una cultura quale quella bizantina di fine Ottocento; quando, cioè, “essere bizantino” voleva significare “essere greco” nonostante le continue invasioni straniere. La metafisica quotidiana della Grecia è centrale anche per lo scrittore-viaggiatore inglese Patrick Leigh Fermor (grande amico di Bruce Chatwin) quando nel suo libro Mani, viaggi nel Peloponneso (1958), descrive il paesaggio ellenico nell’ora in cui la luce letteralmente lo trasforma: “È probabilmente a causa di ciò [luce ed ombra n.d.r.] che un forte significato mistico e sentimentale pervade la superficie effettiva della terra, le rocce e le pietre, delle montagne greche (…) queste caratteristiche hanno uno strano effetto sul paesaggio greco. La natura diventa soprannaturale; la frontiera tra fisico e metafisico si confonde (…) Come appariva grande e nitido! (…) ogni cosa diventa archetipo e per così dire simbolo della propria essenza (…) uno scarsissimo e, forse proprio per questo, ipersignificativo arredo di archi-alberi (…) archi-cactus, archi-pastori e archi-capre. La rappresentazione di questa imponenza e solitudine è uno dei trionfi dei mosaici e della pittura iconica bizantina”.
Proprio sulla luce Fermor dà una definizione pregnante facendo anche un’acuta distinzione tra luce greca e luce italiana, quasi come se contrapponesse il mito al tempo storico, il pathos alla forma, Dioniso ad Apollo: “Questa luce di cui ho tanto parlato, è caratterizzata da molti singolari connotati e giochi di prestigio. Uno è la funzione, come di lente dell’aria. I vapori che vagano nell’atmosfera italiana e smorzano i profili delle cose qui sono assenti. Una gigantesca lente di ingrandimento brucia i veli della lontananza, facendo balzare avanti nitidamente oggetti distanti chilometri come se fossero a portata di mano”.
Queste considerazioni dello scrittore inglese ci riportano alle città descritte da Alberto Savinio, in quel libro/labirinto spazio-temporale che è Ascolto il tuo cuore, città (1944) con una “Milano città più greca d’Italia” e con la mirabile descrizione di Giotto alla Cappella degli Scrovegni, un luogo che per l’autore si rivela come la figurazione della stanza dei giochi della sua infanzia. Le immagini degli affreschi si trasformano ai suoi occhi in giocattoli divini, che brillano della luce del “paradiso perduto”. Qui la luce è un artificio metafisico per scartabellare le nozioni spaziotemporali. Savinio immagina che la sera i protagonisti dei dipinti vengano riposti nelle scatole come si rimettono a posto i pezzi di un presepe: da una parte gli alberi, un’altra le pecorelle, una scatola per le case e una per i personaggi. Nota singolare: “una scatola per le ombre non ce n’è” scrive “perché i personaggi di Giotto non hanno ombra. C’è appena sotto il personaggio un leggero umidore (…) Inquilini di un mondo metafisico, i personaggi di Giotto non buttano ombra”.
Poi Savinio esce dalla Cappella, in una Padova “stupefatta di sole”. È l’ora del dèmone meridiano, quando “ai fedeli è vietato l’ingresso per non disturbare gli immortali”. È la luce nietzscheana e dechirichiana, quella che svela e acceca al tempo stesso, un’ora pericolosa (come la definisce Savinio) che bisogna lasciar passare. E resta l’enigma.
Michela Santoro
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