È già calata la sera in una Roma pervasa dallo spirito di primavera quando invio un messaggio Whatsapp a Hogre, da una settimana siamo in “lockdown” qui in Italia, sono interessato a sapere cosa stia facendo. Conosco Hogre come un artista sofisticato, colto, intelligente, originale e particolarmente autentico. Sempre calmo, meditativo, ammiro l’indipendenza radicale del suo pensiero e l’impegno che infonde nel sostenere ciò in cui crede, i suoi modi gentili, la dolcezza del suo sorriso. Sono curioso di sapere cosa pensa di questa situazione. “Oltre a riflettere, mi sembra il momento perfetto per fare un po’ di graffiti”, questa è la sua risposta. Qualche giorno dopo, un articolo su Repubblica mi informa che “lo street artist Hogre imbratta un pezzo di acquedotto romano”. Guardo le immagini, incastonato magnificamente in una nicchia al centro di un grande rudere di epoca romana, si vede un dipinto moderno in bianco e nero dalla forma ovale, in cui due figure con il volto coperto da maschere antigas si baciano e si abbracciano connettendo i propri dispositivi di sopravvivenza, mentre un faro li illumina proiettando le loro ombre su uno sfondo bianco. Teatrale, passionale, magnifico. Mentre scuoto la testa sorrido, il pezzo è un capolavoro, per molte diverse ragioni. Proverò qui ad esporne brevemente alcune, tuttavia, affido l’analisi degli argomenti più solidi di questo ragionamento a Claudio Gnessi, amico e figura dal profilo intellettuale raro. In un paio di post pubblici Claudio Gnessi ha esposto esattamente quello che penso con una sintesi e una puntualità che mi avrebbe costretto a citarlo o copiarlo, gli ho proposto quindi di ospitare un suo testo sul tema.
NOTE SULL’OPERA DI HOGRE AL PARCO DEGLI ACQUEDOTTI
di Claudio Gnessi
Nei giorni scorsi un’opera di arte muraria è apparsa su una tamponatura di una cisterna romana del II° secolo D.C. presso il Parco degli Acquedotti a Roma. In tanti si sono scagliati contro l’artista, sottolineando l’inopportunità della scelta di fare l’opera in un contesto “antico”. Per sostenere il proprio sdegno, in tanti si sono richiamati a una legge non scritta che impone agli artisti che operano nello spazio pubblico di non toccare i monumenti antichi. Come loro, anche io in prima battuta mi sono appellato a questo “comma orale”, storcendo il naso di fronte al gesto. Poi, ragionando online con artisti, studiosi e semplici appassionati, il discorso s’è complicato e proprio nelle ragioni di chi, come me, era sfavorevole all’operazione, ho trovato i semi di un pensiero che mette il tutto in prospettiva, evidenziando una complessità che mi era sfuggita. Per darvene conto, parto proprio dai codici.
Hogre dipingendo su un monumento antico, infrange quel codice non scritto e mette volutamente “fuori” la sua opera dalla storia del writing, graffitismo, street art… scegliete voi il termine. Un gesto “furioso” ma che, come vedremo, tutt’altro che folle. Ma quel codice non è l’unica “vittima” dell’operazione. L’artista, infatti, rompe ovviamente anche con il codice dei beni culturali, nonché con tutta un’altra serie di leggi dello Stato (non ultime quelle nate in relazione alla pandemia da Covid-19). Hogre compie insomma un gesto autenticamente illegale. E lo fa usando una forma d’arte (la sua) che proprio nella sfida all’autorità ha un suo elemento costitutivo. Per certi versi, uscendo dal perimetro dei codici che ho elencato, riafferma la natura anti autoritaria, ribelle e illegale della cosiddetta Street Art. Artisticamente parlando, è un gesto di lucida ortodossia e per certi versi di rifondazione. E in effetti, in base a ciò che ho descritto, l’azione di Hogre sa tanto di ritorno alle origini, di ricostruzione filologica di un metodo e di una pratica. E in questo, secondo me, possiamo vedere anche una critica all’evoluzione di un’arte che ha perso lo spirito rivoluzionario delle origini e, forse proprio per questo, è rimasta nei fatti “minore”, schiacciata da una narrazione che la dipinge ora come generatrice di degrado, ora come volano per la gentrification.
Sembra quasi che l’artista, rompendo tutta la costellazione di codici sopra descritti, cerchi di ritrovare nella purezza originaria della pratica (vandalica?) il modo per riaffermare invece l’autonomia, verità e dignità di questa forma d’arte. Questa ricerca porta Hogre a intercettare un altro mattoncino del genoma di questa declinazione dell’arte visiva: il dialogo con lo spazio. E anche in questo caso l’artista compie un gesto rivoluzionario, perché assume come spazio la Storia. E quel muro – o meglio la tamponatura in cemento eretta negli anni ‘80 e impreziosita da un fantastico “Forza Lazio” – diventa il simbolo di questa Storia, non più bloccata nell’eterno presente imposto dai codici, ma costretta a scontrarsi col contemporaneo. Il contemporaneo di una pandemia di cui l’artista ci presenta gli effetti sul piano umano, relazionale e affettivo.
Hogre innesta quindi fisicamente il contemporaneo nella Storia usando una declinazione artistica (l’opera pittorica muraria) che, per lui e per molti, è il contemporaneo per definizione, sperimentando una coerenza tra tra forma dell’espressione e forma del contenuto davvero inedita. L’artista obbliga il monumento a riacquistare la parola, non per raccontarci il passato, ma per confrontarsi con l’oggi, moltiplicando il suo potere narrativo. Obbliga tutti noi a ripensare la relazione tra gli elementi del patrimonio culturale che ci circonda, a cercare gli strumenti con cui ripensare le interazioni, i dialoghi e la gestione dei conflitti.
Hogre è riuscito a fare tutto questo? Io questo non lo so. Come non so se quello che l’artista ha fatto mi piaccia veramente. Quello di cui sono sicuro, invece, è che abbia senso. Molto senso.
ALCUNI MOTIVI PER CUI È UN CAPOLAVORO
di Stefano Antonelli
1. La “Rianimazione” di Hogre
Appare puntuale e profonda la rappresentazione di Hogre, nel comunicarsi al pubblico attraverso i media. Nei giorni del continuo divenire in cui non possiamo neanche avvicinarci, il bacio di Hogre “avviene” come una doppia utopia incastonata in una sontuosa cornice storica di testimonianza millenaria pervasa da una comune e accettata estetica dell’abbandono. La sola stratificazione simbolica di questa rappresentazione è di una ricchezza di dimensione finanziaria che non tratterò in questo articolo ma di cui appare evidente la portata. Rimaniamo quindi sul bacio, il bacio è la terapia intensiva della nostra vita, la nostra rianimazione. Viene da lì il bacio, è il “residuo” simbolico della sua funzione originaria, quella che in queste settimane abbiamo affidato alle macchine nelle terapie intensive dei nostri ospedali per salvare noi stessi, ovvero rianimare, ricondurre l’anima nel corpo. È questo in fondo che facciamo ogni volta che ci baciamo o quando un dottore ci intuba, proviamo a rimettere un po’ di anima nel corpo di chi amiamo. Nel solco della pittura storica delle “Deposizioni”, “Trasfigurazioni” e quant’altro, questo lavoro appare con la sacralità civile di una “Rianimazione”. È l’arte del XXI secolo che soccorre l’urgenza tutta umana di rappresentare il tempo della terapia intensiva, del virus, delle mascherine, della deprivazione aptica. Niente baci, abbracci, l’amore ridotto a idea. La “Rianimazione” di Hogre ci parla di speranza e della sfida necessaria per poterla evocare.
2. Il tutto è maggiore della somma delle parti
In questo lavoro Hogre istituisce una relazione tra oggetti culturali “maltrattati” o “minori” se volete, come quella tra “graffiti” e un rudere semi-abbandonato di un’antica cisterna. È una posizione fortemente politica. L’esito ci restituisce una immagine che convoca un principio aristotelico del mondo: il tutto è maggiore della somma delle parti. La cisterna col dipinto dirompe, irrompe, annuncia, spacca. Uno dà forza all’altro, oltre a celebrare il principio di interazione rispetto a quello di applicazione, Hogre istituisce un esempio limpido del valore del principio di reciprocità. Le pratiche artistiche di pittura nello spazio pubblico coinvolgono l’artista su piani che altre pratiche artistiche non convocano, tra queste, la collocazione finale dell’opera. L’artista tradizionale non ha generalmente alcun diritto sul destino dell’opera, al contrario Hogre decide dove collocare le sue immagini. L’artista ha sistematizzato un approccio pragmatico alla pratica artistica che la rinnova e fa degli oggetti del mondo il materiale per la creazione e ri-creazione continua di significati. La rappresentazione di immagini nello spazio pubblico è sottoposta a una certa dinamicità dei significati e una certa “apertura” degli stessi che non sembra essere stata ancora pienamente colta e che Hogre in quest’opera coglie in modo nuovo e potente, questi significati inoltre, sono immersi nelle pratiche (auto)espositive quanto in quelle comunicative e di fruizione. Hogre è un demiurgo di questo nuovo statuto comunicazionale dell’arte e questa opera, rivendicando l’estensione dei suoi diritti etici ed estetici, ne è la più chiara rappresentazione.
3. Arte, Tempo e Comparativismo Critico Spietato
Con questo lavoro Hogre trasforma il contesto in medium, realizzando così un’opera di “reframing” strutturale delle idee più conservatrici sulle relazioni tra arte e tempo, una questione che già permea il dibattito contemporaneo sull’arte, affrontata – ad esempio – da Cristiana Collu alla Galleria Nazionale con il progetto Time is Out of Joint. Se è giusto o sbagliato realizzare un dipinto murale sul patrimonio storico-artistico vincolato è una questione morale che non tratterò, arte e morale non sono due piani in dialogo. Tuttavia come membro della società sono felice quando sono gli artisti, piuttosto che i criminali, a superare i confini e a sfidare le regole. Per realizzare questo dipinto Hogre sfida tutto, virus, coprifuoco, pattuglie, beni culturali, tuttavia, sfidare le regole per questo artista non è mai un fine ma sempre un mezzo, significa non essere soddisfatti delle formule e delle categorie esistenti ma aprire nuovi cammini, cogliere il tempo opportuno, fare da guida. Significa rimettere in questione la solidità delle cose, praticare un relativismo generalizzato, un comparativismo critico spietato nei confronti delle certezze più incrollabili, riconoscere che le strutture istituzionali e ideologiche che ci inquadrano sono circostanziali, storiche e dunque riformabili a nostro piacere. Basta un bacio e una cisterna romana. Di fronte all’inadeguatezza di gran parte della produzione di senso del nostro tempo, questa opera, questo artista, appaiono come una luce.
Il bozzetto originale dell’opera si chiama “Deathflux, ready-made feelings”. Forse Hogre l’aveva pensata per una delle sue azioni di subvertising. Quando gli ho chiesto se il titolo del dipinto sarebbe rimasto quello mi ha risposto: “il titolo lo scriverà qualcun altro. Non è un pezzo di De Dominicis che ha bisogno del titolo”.
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