BASILEA – E’ stata inaugurata il 13 ottobre 2021“Andy Warhol – Pop Art Identities”, al Masse Basel, una mostra a cura di Maurizio Vanni, prodotta e organizzata dall’Associazione MetaMorfosi in collaborazione con Spirale d’Idee.
Si tratta di un’esposizione che, avendo come fil rouge il tema dell’identità, offre una visione ampliata e inconsueta su Andy Warhol e la sua “moltitudine di identità”. L’artista, come spiega Vanni in questa intervista, si adattava infatti a i vari contesti non potendo permettersi una sola identità, per paura e insicurezza.
Una mostra “puntuale” potremmo dire, poiché arriva in un momento storico particolare, in cui il crollo di ogni certezza impone oggi un continuo riadattamento “identirario” per riuscire a comprendere e relazionarsi con i nuovi scenari post pandemici.

La mostra “Andy Warhol – Pop Art Identities” ruota attorno al tema dell’identità: un’esposizione che sembra indagare in profondità, da un punto di vista più sociologico e psicologico, la personalità di Warhol come uomo e come artista. Come nasce l’esigenza di focalizzarsi su questo aspetto?
Questa mostra mi ha offerto la possibilità di produrre la quarta pubblicazione su Andy Warhol, ma a differenza delle altre è arrivata in un momento storico veramente particolare: l’epilogo di una pandemia che ha modificato in modo irreversibile il contesto in cui viviamo e lo scenario culturale. Per chi, come me, si occupa anche di valorizzazione e gestione museale sarebbe stato imperdonabile non provare a comprendere i cambiamenti antropologici, sociologici e psicologici delle persone per anticiparne esigenze e desideri. La domanda di base era quella di intuire le nuove identità cercando di adattarsi ai nuovi stili di vita. Ed ecco l’idea di indagare un artista che si è manifestato al mondo attraverso una moltitudine di identità, ma senza mai perdere del tutto coerenza con i propri obiettivi: diventare ricco e famoso, essere ricordato come il primo business man della storia dell’arte ed entrare in tutte le case di New York con le proprie opere. Per una mission come questa, non sarebbe stato sufficiente il ricorso alla storia e il supporto della storia dell’arte, ma l’approccio doveva essere necessariamente interdisciplinare. La mostra di Basilea è stata ordinata in sette sezioni che rappresentano temi, modalità espressive e identità differenti, che rispondono alle esigenze di un qui e ora lucido e irrequieto, frenetico e imprevedibile, trasversale e commerciale, innovativo e irriverente, provocatorio e impertinente. La domanda che metaforicamente pongo all’inizio del percorso espositivo è proprio questa: quanto di vero c’è nella personalità che manifestava attraverso improbabili frasi fatte e quanto di autentico possiamo intercettare nel corpus dei suoi lavori? È stato un genio del proprio tempo o un pubblicitario intraprendente che ha dato forma e colore ai desideri celati delle persone? E se la sua fosse stata un’evoluzione continua della propria identità manifestata in una città che cambiava aspetto e “concetto” quotidianamente?
Warhol sembrava alla ricerca di un’identità. Forse anche attraverso le immagini stesse che amava riprodurre Warhol proclamava la sua instabilità identitaria, la necessità di indossare continuamente maschere? Quella di Warhol era un’identità in continua trasformazione, evoluzione, adattamento?
Warhol aveva avuto un’infanzia davvero complicata: timido, insicuro, con problemi di salute (compresi momenti di vulnerabilità mentale). Era“bullizzato” a scuola e non considerato troppo dai fratelli a casa: solo la mamma lo adorava perché, probabilmente, ne aveva intuito il potenziale. Il primo, e forse unico, momento di luce di questo periodo storico arrivò attraverso l’arte: disegnava magnificamente e fu con questa sua grande capacità espressiva che conquistò la simpatia dei compagni e il rispetto dei ragazzi più grandi. Fu allora che comprese quale sarebbe stato il suo futuro. Da ragazzino timido, insicuro e impaurito avrebbe dovuto trasformarsi in un personaggio sicuro di sé pronto ad affrontare i problemi della vita. I cambiamenti che si decidono a tavolino devono sempre scontrarsi con la realtà: non era bello, non era un abile oratore, non aveva grandi disponibilità economiche, ma aveva idee geniali, un gusto compositivo naturale e una grande capacità a rendere attrattivo ogni suo lavoro. Si adattava ai diversi scenari perché non poteva permettersi una sola identità: la paura e l’insicurezza rimanevano, ma dovevano essere criptate con atteggiamenti inattesi e imprevedibili.
Se identità significa anche riconoscibilità, come si sarebbe rapportato oggi Warhol rispetto all’attuale società, al mondo dei social media, alla tecnologia imperante? Ci sarebbe stato un adattamento a questa realtà che in qualche modo aveva già previsto/anticipato, facendo un salto nel futuro?
Non ho mai utilizzato il termine “bello” nel descrivere un suo lavoro: credo che l’aggettivo più appropriato possa essere ”necessario”. Serviva un Andy Warhol nella storia dell’arte di un trentennio che avrebbe cambiato, forse rivoluzionato ancor più delle Avanguardie storiche, la storia dell’arte. L’Espressionismo astratto stava lasciando il posto a nuove modalità espressive che avrebbero messo il pensiero dell’artista al centro di tutto. La vera rivoluzione dell’artista americano è stata quella di velocizzare il cambiamento: quando percepì che l’estetica non sarebbe più stata un elemento portante di un lavoro artistico e la parte commerciale invece sempre più rilevante mutò completamente le regole del gioco e, con la serigrafia fofografica, tolse il concetto di unicità e autenticità all’opera d’arte. Come sarebbe stato oggi? Completamente a suo agio: la sua fortuna è stata quella di rappresentare una società dei consumi che credeva nel dio denaro, nelle celebrità, nell’effimero, nel materialismo, nell’immagine e nell’avere. Sarebbe stato un perfetto influencer sempre un passo avanti alle tendenze sociali e culturali.
Qual è quindi l’aspetto nuovo che emerge da questa mostra di Basilea?
Sembrerà incredibile, ma è la coerenza. Il suo adattarsi a ogni circostanza non lo rende un essere mendace. Lui non rappresenta lo Zelig degli artisti, ma un’identità liquida che si adatta alle circostanze senza mai perdere di vista le proprie finalità. Il suo essere coerente si consolida proprio attraverso le mille contraddizioni, ma al tempo stesso potrebbe far parte di quei grandi illusionisti che continuano a sorprenderci e meravigliarci anche a distanza di tempo pur proponendo le stesse magie. Sarebbe presuntuoso pensare di scrivere qualcosa di nuovo su Warhol, ma credo sia interessante la forma narrativa con cui viene proposto attraverso una carrellata di VIP che si susseguono su un magnifico red carpet: i suoi ritratti sono ovviamente personaggi, ma lo sono anche i suoi oggetti, le serie che porta in scena, le cover di LP, i suoi ready-made e perfino i Flowers e le Cow. Diciamo che in questa mostra, per come è pensata, anche il visitatore si sentirà un personaggio degno di essere ritratto da Warhol, purché non dimentichi di passare alla cassa e pagare!
Perché, pur essendo legate a un particolare momento storico, molto differente da quello attuale, le opere di Warhol continuano a suscitare interesse e fascinazione? Cosa si può trarre da esse in questo contesto post pandemico?
La prima risposta che mi viene in mente non farebbe onore a tanti artisti contemporanei: dopo di lui nessun artista visivo è riuscito a trovare una tale riconoscibilità e popolarità da diventare lui stesso, un po’ come i suoi lavori, un oggetto di consumo. Gli scenari in cui si muovono artisti come Damien Hirst e Jeff Koons, ad esempio, sono ben diversi, nonostante loro stessi siano diventati un brand nell’immaginario collettivo. Perché anche nelle nuove dimensioni che ci attendono nel post pandemia dovremo ancora fare i conti con la forza attrattiva di Warhol? Perché, in fondo, ognuno di noi ancora aspira a vivere i suoi quindici minuti di celebrità e perché anche oggi chiunque può ancora permettersi di sognare di avere in casa un suo lavoro.