Contributo a cura di Nora Goleshevska, PhD Institute for Creative Civil Strategies
“Images are silent, but they speak in silence. They are a silent language. They are a station on the way from silence to language. They stand on the frontier where silence and language face each other closer than anywhere else, but the tension between them is resolved by beauty. Images and pictures remind man of life before the coming of language; they move him with a yearning for that life. […] It is the soul that preserves the silent images of things.”
VENEZIA – Il padiglione bulgaro alla 59° edizione della Biennale di Venezia trova espressione nel progetto “There you are”.
Dal proficuo dialogo tra l’artista e la curatrice, Irina Batkova, ha preso forma la risposta di Michail Michailov al tema proposto da Cecilia Alemani, intitolato “Il latte dei sogni” e ispirato ai racconti di Leonora Carrington (1917-2011), alla vigilia del 105° anniversario della sua nascita. La proposta del tandem Michailov -Batkova si concretizza in un intervento site-specific ospitato nello spazio espositivo Spazio Ravà presso il sestiere di San Polo, nei pressi del Ponte di Rialto, il primo ponte sul Canal Grande progettato per garantire la circolazione pedonale nel centro della città-stato libera, i cui scambi commerciali e culturali in quell’epoca raggiunsero i limiti del mondo conosciuto. Il dialogo in progress alla base del progetto è disponibile nel catalogo della mostra, e può fungere da ulteriore chiave interpretativa dell’opera.

“There You Are” si allaccia all’idea presentata da Cecilia Alemani ponendo l’accento sulla sua fonte di ispirazione, ossia il mondo magico dei racconti dell’artista surrealista, dove la vita viene costantemente riscoperta attraverso l’immaginazione, e dove il cambiamento e la trasformazione sono consentiti, di pari passo con la possibilità di diventare altri da sé. Guardando l’opera di Michailov, trovo importante la spiegazione fornitaci dalla stessa Alemani, secondo la quale il libro di Leonora Carrington opera su un doppio binario che porta in parallelo “la percezione di un universo di infinite possibilità” e “l’allegoria di un secolo che impone una pressione insopportabile sull’identità”. Alemani aggiunge che i racconti di Carrington delineano l’orizzonte di un mondo senza oggetti solidi né identità, la cui legge trainante è la trasformazione risultante da un sistema di dipendenze simbiotiche. È interessante notare che la descrizione di tale mondo incantato rimandi a una fisica molto più vicina a quella quantistica che a quella newtoniana e degli oggetti solidi.
Simile impostazione si traduce, a livello dell’attuale Biennale, in una concezione che invita i partecipanti a offrire riflessioni creative sulla vita nell’era del postumanesimo e sulla fine del modello di pensiero antropocentrico, ponendo in discussione la visione moderna e occidentale dell’essere umano. Alemani dirige le sue riflessioni in tre direzioni, ponendo un focus particolare sulla rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi, sul rapporto tra l’individuo e la tecnologia e sul rapporto tra i corpi e la Terra. L’importante questione che ne deriva è frutto di numerose conversazioni intercorse tra Alemani e diversi artisti ed artiste intenti nell’esplorazione delle metamorfosi della definizione di uomo e di umano nell’ora di un’umanità minacciata, ove l’illuministica e universalistica idea di “soggetto della ragione” (solitamente incarnato dal maschio bianco), usualmente inteso come il centro dell’universo e misura di tutte le cose, è inevitabilmente compromessa. Le tecnologie, la pandemia, le sfide ambientali sono alcuni dei fattori che, per Alemani, mettono in discussione il potere, l’autosufficienza e l’invincibilità della coscienza umana rinchiusa in corpi fragili e mortali. Una via d’uscita dalla crisi del potere illusorio della coscienza allora è da ricercarsi, secondo la curatrice, non in un luogo qualsiasi, bensì negli spazi dell’immaginazione, territorio che tradizionalmente associamo al mondo onirico, ai sogni, alla mitologia, ma anche all’arte e alla creatività.

La messa in discussione della concezione illuministica dell’uomo interessa per forza di cose altre categorie a essa direttamente collegate, quali il concetto stesso di arte e di opera d’arte, il che non può che suscitare la curiosità intellettuale non solo nella critica d’arte professionale, ma anche una riflessione di più ampio respiro in campo umanistico. Il problema dato dall’impossibilità di mantenere la garanzia della coscienza innesca un’ulteriore problematica: quella del mantenimento dell’apparato concettuale su cui sono fondate le nostre aspettative in rapporto a un opera d’arte e, giacché le due categorie – opera d’arte e coscienza – sono in stretto rapporto con la dottrina illuministica, la loro impossibilità mette direttamente a fuoco le questioni sollevate da Cecilia Alemani. In altre parole, capiremmo l’opera se capissimo che cos’è l’uomo e viceversa, e, in tal caso, vi riusciremmo solo non imponendo preventivamente una risposta imperativa alla domanda “che cos’è l’arte”. Tale è, a mio avviso, l’approccio che segna lo sviluppo della concezione dell’opera “There You Are” di Michail Michailov e a cura di Irina Batkova per il padiglione bulgaro alla 59° Biennale di Venezia.
La risposta ai dilemmi filosofici di Alemani, Michailov la fornisce attraverso un sistema espressivo minimalista, realizzato in una propria architettura che è alla base di un’atmosfera sperimentale che trasforma la sala da pranzo e le stanze adiacenti, situate al primo piano di un edificio di una casa borghese veneziana in stile neogotico, al punto tale da renderle irriconoscibili, se non, addirittura, immemorabili. Nella concezione artistica, lo spazio agisce come moltiplicatore, coinvolgendo l’ampia gamma di strumenti artistici utilizzati finora nel lavoro di Michailov – disegni, installazioni, video e performance – con i quali invita lo spettatore a effettuare molteplici letture. E in questa direzione si muove anche l’intuizione dell’attuale interpretazione di “There you are”, ovvero: pensare l’opera al plurale.
Nella geometria dello spazio di “There you are”, il titolo agisce come come una bussola dotata di un singolare ancoraggio performativo. Esso si rapporta alle domande poste da Alemani senza dare loro una risposta univoca o universalmente valida. È in grado, piuttosto, di provocare un effetto di risveglio nello spettatore, che inizia a porsi una serie di domande. L’ostentata indicazione del luogo in cui si trova lo spettatore – questo “eccoti qui” – fa scattare un meccanismo mediante il quale chiunque entri nell’opera non potrà evitare di domandarsi dove è arrivato nel proprio percorso di trasformazione personale, a che punto è nel processo di costituzione della propria identità, nei rapporti con il mondo e con le altre forme di vita.
Lo spazio artistico trasforma la geometria di ciò che è fisico, attuando uno spostamento dei confini del visibile, operando con le silenziose dinamiche dei meccanismi della memoria (personale, architettonica, collettiva, karmica…). Il più che manifesto interrogativo “eccoti qui” è una sorta di provocazione per la mente, ma anche per il corpo dello spettatore, che è costretto non solo a intensificare il livello di attenzione rispetto ai regimi figurativi della mostra, ma anche a interagire fisicamente con essi – dovendosi guardare intorno, accovacciarsi, fissare lo sguardo in alto e in basso, ma anche sotto e sopra. Non è un caso che il catalogo del progetto, oltre ai dialoghi tra artista e curatore, contenga un testo del primo Giorgio Agamben, intitolato “L’idea dell’immemorabile”, in cui il pensatore (tra l’altro biograficamente legato a Venezia) formula la tesi che “sogno e memoria immergono la vita nella parola, rendendola in tal modo inaccessibile alla memoria”, ed è propriamente nel sogno che l’immemorabile e l’indimenticabile entrano in una speciale indistinguibilità e a vicenda si trasformano.
Ai regimi immaginativi impostati dall’esposizione del padiglione bulgaro di quest’anno possiamo accostarci così come ci accosteremmo agli ingressi dell’edificio che lo ospita. È forse per questo che nel catalogo del progetto la curatrice del padiglione ritiene necessario indicare i possibili ingressi allo spazio Ravà: “Alla stanza si accede sia attraverso il giardino, che è aperto solo in occasioni speciali, sia attraverso l’ingresso ai cunicoli tipici di questa città, al di sotto degli edifici che collegano il già confuso labirinto di strade.” L’attuale interpretazione ci suggerisce che l’opera ci invita a non entrarvi frontalmente, ma a compiere delle deviazioni, seguendo l’effetto labirintico della stessa Venezia.

Lo spettatore è catapultato in una situazione spazialmente definita, in una sorta di laboratorio visivo, in cui, a seconda del suo stato di coscienza e del potere della sua immaginazione, potrebbe ritrovarsi contemporaneamente in posti diversi. “There you are” costruisce praticamente un ambiente ostentatamente artistico, incentrato sull’essere umano che si ritrova al suo interno (Essere-nel-mondo /Da-sein /L’Esserci) esattamente nel momento in cui acquisisce la consapevolezza della propria collocazione in un certo luogo, pensato, quest’ultimo, non tanto come uno spazio fisico quanto come ‘un mondo’ (un orizzonte di significati possibili) da cui dipende la propria concezione di sé. Una lettura che voglia cogliere nell’interezza il significato dell’opera di Michailov nello Spazio Ravà dovrà tenere presente che, diversamente che in precedenti lavori, in “There you are” pone l’accento sullo spazio in sé – uno spazio pensato non solo nei suoi parametri fisici, ma nello statuto filosofico di “mondo” – conscio, inconscio, circostante, un mondo di preconcetti, relazioni, tracce semantiche e fisiche preesistenti, di azioni nostre e altrui, in cui ognuno di noi è gettato.
Quindi, “There you are” indica il luogo stesso dell’interrogativo – chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando – incontrando, in questo terreno sperimentale, sia letteralmente che metaforicamente, il disegno superrealistico di microtracce dell’esistenza altrimenti invisibili (la quasi-religiosa allusione nel titolo della serie di disegni “Dust to Dust” a questo punto non pare affatto casuale), sogni immemorabili, ricordi nebulosi, fantasticherie vaghe ma audaci, fantasie e fantasmi, deliri e chimere, trasformantisi fin dall’atto stesso del sognare (a occhi aperti o nel sonno), ma tuttavia, tenuti insieme dalla coscienza nel mondo della sua immaginazione. Tutte queste tracce trovano posto non su, ma intorno a specifici piedistalli “purificatori”, trasformati a loro volta in oggetti centrali dello spazio artistico. Qui lo spettatore intraprende un viaggio in cui protagonista è la sua stessa immaginazione.
L’architettura dell’opera e i disegni che la contengono, le installazioni e i video mettono in discussione le consuete nozioni spaziali di ‘sopra’ e ‘sotto’, ‘giù’ e ‘su’, ‘fuori’ e ‘dentro’, bilanciando l’arsenale figurativo utilizzato tra i regimi di gravità e di meditazione, ove “pensieri ossessivi”, “ansie della mente”, “mondi paralleli”, tracce dell’esistenza quotidiana, ricordi, colori, si riversano nella percezione, mossi dall’istinto della coscienza incessantemente alla ricerca di cose, la quale apre improvvisamente i propri sentieri “come verso un’altra realtà”. Colta in questo ambiente, nel suo desiderio di dominare le cose del mondo, immersa in differenti emozioni e passioni, la coscienza è provocata da finestre temporali che si aprono all’improvviso e dal casuale venirsi a trovare faccia a faccia con tracce di esistenza perse, dimenticate, represse (già inutili e indesiderate, mentali e visive).

A sua volta, l’espansione dell’architettura applicata nel suo Headspacing disseziona la sfera psicosomatica della persona che viene a trovarsi in questa posizione, dove il capo dello spettatore si trova immerso nell’architettura artistica, mentre il suo corpo rimane in uno spazio esterno al mondo dell’arte. Nel caso di “There You Are”, lo spazio in cui si espande l’intervento architettonico di Michailov è una sorta di spazio “naturale” – il cortile interno di Spazio Ravà, che evoca l’illusione di un modello di paradiso terrestre in miniatura, addomesticato secondo i dettami borghesi – mito che ha segnato il sogno compensatorio dell’uomo occidentale moderno, che ha volontariamente tagliato i ponti con la natura, facendo di essa oggetto di addomesticamento e controllo. Che sia un caso o meno, il cortile di Spazio Ravà si affaccia sul Canal Grande, simbolo della prosperità, del potere commerciale e dei traffici della Serenissima estesisi fino angoli più remoti ed esotici del mondo. In tale contesto sembra quindi ridestarsi quel mitologema, così caratteristico dell’individuo moderno che ha perduto l’armonia con la natura, del Paradiso terrestre, per poi essere successivamente messo tra parentesi, attraverso lo smembramento del corpo dell’artista/spettatore. Così lo sguardo si rivolge all’interno e va a integrarsi nello spazio di compatibilità creato proprio dall’architettura dell’opera d’arte, mentre il corpo rimane nel mondo “naturale” di quel cortile, rarità nell’assetto urbanistico veneziano, su cui la finestra guarda esattamente seguendo le leggi della prospettiva lineare.
Su tale sfondo, curiosa è la decisione di Michailov di far indossare speciali divise bianche ai custodi della mostra, andando in questo modo a integrare perfettamente i loro corpi nell’ambiente artistico tanto da farli diventare invisibili. Così essi riescono ad essere sia qua che là nello spazio della mostra – e fissati nei luoghi a loro specificatamente indicati – e nel solidale atto di indicare allo spettatore accenti, direzioni e significati nell’interpretazione dell’opera.
Questo approccio dà a Mihailov l’opportunità di lavorare al confine dell’immagine, facendone confine psicosomatico tra conscio, inconscio, corporeità, immaginazione e mondo. Si potrebbe dire che l’opera ha luogo alla luce della coscienza, al confine tra interno ed esterno, tra visibile e invisibile, tra immemorabile e indimenticabile. Tale specificità avvalora l’ipotesi che “There you are” riesca ad operare come “atto di creazione” per eccellenza, nel senso in cui Giorgio Agamben definisce questo termine nelle sue riflessioni. A sostegno di tale intuizione è la pubblicazione del saggio di Agamben “L’idea dell’immemorabile” incluso da Irina Batkova nel catalogo del progetto, con il gentile consenso del filosofo.
Prendendo in considerazione queste posizioni “There you are” compie una decostruzione visuale del rapporto tra coscienza e consapevolezza di essa, che agisce attraverso riflessioni psicosomatiche, eseguite come meditazioni artistiche su tracce inconsce lasciate dai corpi umani, trasformate da Michailov in immagini. Così, all’unisono, sia la mente sia i sensi dello spettatore si preparano alla percezione della specifica dialettica instauratasi tra la catena di senso rappresentata dalle categorie mondo-coscienza-inconscio-memoria-corpo-traccia-immagine-immaginazione, che si formula a seconda della personale risposta dell’osservatore all’interrogativo “There you are”, molteplici e variabili costellazioni di una specifica fenomenologia dell’umano, esplicitata con un’impronta minimalista.
Non sembra casuale che lo spettatore sia invitato a percorrere lo spazio di “There you are” in compagnia di una scatola (magica) dotata dell’infinito potenziale di poter soddisfare la propria sete di immagini, riponendo tutto il possibile entro i limiti dell’immaginazione. A proposito, l’allusione visiva alla scatola dipinta da Exupéry nell’apparizione del Piccolo Principe nel deserto, in risposta al suo inestinguibile desiderio di una pecora dipinta, è amplificata dalle scene di uno dei video, dove è ripreso l’insolito movimento del corpo dell’artista in un paesaggio desertico. Analoga associazione è evidenziata anche nella tuta da pilota indossata dall’artista durante la performance in apertura del padiglione.
Attraverso tali strategie visuali, “There You Are” funge da ingresso in altre dimensioni temporali e ribalta lo spazio, imponendo la concezione di un mondo multidimensionale (insolito, non causale) a cui potrebbe corrispondere il concetto di multidimensionalità e personalità. L’impianto visuale è progettato in modo tanto minimalista quanto meticoloso per creare un mondo terapeutico, meditativo e artistico in cui il colore bianco suggerisce un’inarrestabile ricerca di purificazione, ma allo stesso tempo fa da intermediario tra vari stati al limite – sogni, sogni notturni, ma anche il disturbo mentale, la morte – tutti stati di transizione e trasformazione. E tutto questo accade, in un certo senso non casualmente, nello spazio espositivo Ravà, situato accanto al ponte di Rialto.

L’ordine associativo permette di seguire un percorso interpretativo che ammette persino la possibilità di un “latte SENZA sogni”, pensato come metafora dell’incapacità di sognare, purificare, riciclare la memoria, rimanendo intrappolati sotto il peso schiacciante della coscienza. Così potrebbe leggersi uno dei video della serie “Just keep on going”, visibile esattamente sotto uno dei disegni accanto all’uscita dalla mostra verso il cortile dello Spazio Ravà. Una curiosa caratteristica etimologica della lingua bulgara (e delle lingue slave in genere) pone la libertà nell’interpretazione della parola dream, nel suo duplice significato di ‘sogno” come prodotto dell’attività mentale nel sonno e ‘sogno” come desiderio, prodotto della fantasia, i cui significati si avvicinano alla differenzainstaurata dalla psicologia tra immaginazione retroattiva-passiva e immaginazione proiettiva-attiva-creativa. Questa differenza potrebbe essere intesa come solco linguistico che fissa una linea di lettura in cui il latte/crema dei sogni notturni e il latte/crema dei sogni intesi come desideri sono pensati in parallelo, operando con gli incerti confini tra sogno e incubo, tra sogno e fantasticheria (con cui, suggerisce il mio intuito, Michajlov lavora nei due video della serie “Just keep on going” in mostra allo Spazio Ravà).
Se i sogni intesi come desideri sono proiettivi, dotati di potenzialità, aneliti venuti allo scoperto al cospetto della coscienza, allora i sogni intesi come contenuto onirico spesso rimandano anche a modalità dell’inconscio/memoria (personale o collettiva), ricostruita sulla base di tracce, attraverso associazioni.Particolarmente interessante è qui l’approccio della curatrice Irina Batkova, il cui testo curatoriale “Syntax” è in realtà basato sulla completa disintegrazione della sintassi, al punto tale che nello spazio espositivo si sviluppa in una forma che ricorda molto il metodo delle associazioni psicoanalitiche. Un simile approccio sembra suggerire chesogna (nel senso proiettivo-attivo) solo chi, sognando (inteso come il produrre contenuto onirico), può purificare e rielaborare nella propria immaginazione le tracce degli scontri quotidiani tra coscienza e inconscio, tra norme e istinti (“la manipolazione della propria percezione nei termini di Michailov “).

In questo ordine di senso di sogni-fantasticherie-desideri e sogni prodotti nel sonno, fantasmi e spettri, “There Where You Are” rimuove la logica dell’onnipotente massima cartesiana “Penso, dunque sono” per introdurre lo spettatore in uno spazio di un altro tipo di meditazione, in cui i sogni – di entrambi i tipi – si incontrano, sul solco di confine dei resti-tracce, dove la posta in gioco è se ciò sia possibile e, se sì, vien da sé chiedersi allora come si possano purificare e trasformare i sogni (prodotti nel sonno) in sogni (prodotti dell’immaginazione), poiché, senza tale sforzo, scompare il sentire del qui, del punto di riferimento, del sopra e del sotto; della destra e della sinistra, del mondo, ma anche di un centro interiore. Oppure, per dirla in un altro modo: può sognare, cioè produrre desideri orientati verso il futuro, solo chi sa interpretare i propri sogni (intesi nell’altro senso), e ciò avviene attraverso un pensare molteplice e multidimensionale, ribellandosi alle regole imposte dalla coscienza, superando le sue “strutture abituali del pensiero” (Michailov), le sue paure e le sue ossessioni per raggiungere – riscoprendo e trasformandosi quotidianamente – un armonioso rapporto con esse e con se stesso.
Picard, M. “The world of silence”, 1948.
A prescindere dall’interpretazione di Alemani, nel campo delle scienze umane tale questione non stupirebbe nessuno. Gli antichi egizi, ad esempio, avevano una concezione dell’essere umano ben più avanzata rispetto a quella dell’uomo occidentale basata sulla moderna interpretazione della divisione di anima e corpo di greco-romana eredità. Per gli antichi egizi, invece, il pensiero umano è associato a ben più complessa e dinamica costellazione: tra l’anima, Ba; il sosia dell’uomo, Ka; Akh, ossia la fusione di Ba e Ka, abitante dell’aldilà e libero dalle catene della corporeità; Ib, il cuore, che al tribunale di Osiride è pesato sulla bilancia della dea Maat (verità) per rendere conto di quanto devotamente ha vissuto la persona; il cuore fisico, Hatti, che continua a dimorare nel corpo mortale durante il processo di mummificazione; Hat, il guscio mortale dell’uomo, ricettacolo di Ka e Akh; Sah, il corpo spirituale, i “sacri resti” dopo la mummificazione.
Questo contesto rimanda a una serie di testi divenuti classici nel pensare il rapporto tra l’uomo e l’arte, che hanno definito diversi aspetti di questo problema nelle discipline umanistiche dell’ultimo mezzo secolo: partendo da “L’uomo a una dimensione” di Marcuse, passando da “L’uomo senza contenuto” di Agamben fino alle opere teatrali divenute classiche sulla fine dell’arte di Arthur Danto e Hans Belting, ad esempio.
Note
Pag. Dal Catalogo/pagina della traduzione bulgara, pag. Dalle traduzioni in inglese e italiano
I. Batkova Testo per il catalogo 1.
A differenza dell’approccio che ha finora caratterizzato il lavoro di Michailov, incentrato ovvero su un lavoro preciso con gli oggetti, ora i suoi sforzi si concentrano sulla geometria dello spazio. Ciò non toglie che si possano pensare questioni, direttamente collegate a “There you are”, che abbiano già impegnato Michailov negli anni precedenti. Ad esempio, nel 2021 nella galleria d’arte contemporanea+359, Michail Michailov trasforma delle tute in nuove “sculture terapeutiche“, il cui obiettivo è quello di rompere le abituali strutture di pensiero della coscienza. Così, gli oggetti lanciati per strada e ritrovati dall’artista sono velati da cotone idrofilo e ricoperti da una tuta protettiva, che, secondo il curatore della mostra Hannes Anderle, crea nuove, inimmaginabili costruzioni e connessioni che inducono lo spettatore a riformulare in modo nuovo il proprio giudizio.
Vedi il catalogo della mostra.
Sulle interpretazioni figurative del mito del Paradiso Terrestre, cfr. Angelov, A. “Anti / Modernity: Images of the Exotic and Earthly Paradise in Europe in the XIX Century”, Sofia, 2017 HYPERLINK “about:blank” HYPERLINK “about:blank” (Immagini antimoderne del paradiso esotico e terrestre in Europa nel XIX secolo Angelo Valentinov Angelov – Academia.edu.
Con “atto di creazione” Agamben intende un atto di resistenza tra la potenza-di e la potenza-di-non: quella forza che permette di non passare all’atto che essenzialmente determina ogni potenza. “Dobbiamo allora guardare all’atto di creazione come a un campo di forze teso fra potenza e impotenza, potere e poter-non agire e resistere.” (Giorgio Agamben, “Che cos’è l’atto della creazione?”, In “Creazione e anarchia. L’opera nell’età della religione capitalista”, Neri Pozza, Vicenza 2017)
Un’estemporanea associazione con due momenti in “Alice nel Paese delle Meraviglie” mi parrebbe assai rilevante:se poco importa dove vuoi andare, allora poco importa sapere per dove devi andare e qui devi correre più che puoi per restare nello stesso posto e, se vuoi andare da qualche parte, devi correre almeno il doppio.
In bulgaro: ‘сън’ e ‘мечта’.
Mihailov esplora le manipolazioni della propria coscienza nell’opera Self-brainwashing, realizzata nel 2021 nella galleria +359, a Sofia. Nella concezione di essa sottolinea che “Solo la nostra percezione soggettiva è certa per noi, sapendo che è soggetta alla manipolazione della nostra esperienza.” L’opera è composta da oggetti d’arte che attraggono ironicamente la mente in nuovi mondi, con strategie artistiche che, secondo la curatrice Hannes Anderle, comprendono un simbolismo che provoca gli spettatori a riflettere sulla misura in cui la percezione umana è basata su un’illusione permanente, che scoppia costantemente come le bolle di schiuma. A partire dalle specificità della torre di approvvigionamento idrico (Vodnata kula) in cui ha luogo il progetto, l’artista utilizza la metafora dell’acqua in movimento, sintetizzata da Alphonse de Lamartine: “La vita deve scorrere. L’acqua che non scorre si ricopre di schiuma e marcisce.”