di Vernalda di Tanna
ROMA. – Viviamo in un tempo i cui confini sono tratteggiati da presagi apocalittici, mentre la società è immersa in un presente iperconnesso la cui metafora potrebbe coincidere, da un lato, con uno scarto tra il tutto e il nulla; ebbene, forse è dalla vacuità d’un presente dove perfino l’immaterialità finisce per gonfiarsi di tutto che gli artisti hanno la possibilità di prendere le distanze. E alcuni di essi colgono l’opportunità di farlo per mezzo della loro insistente ricerca individuale e artistica.
Non si lasci cadere nel dimenticatoio una sequela di artisti che riuscirono a distinguersi anche in altre epoche per essere stati al contempo poeti, scrittori, prosatori e giornalisti. Un caso esemplare del secolo scorso, in tale direzione, è esemplificato dall’attività poetica di un pittore che ha rivoluzionato il mondo dell’arte, Pablo Picasso, del quale quest’anno ricorre il cinquantennio della scomparsa.
Fra il ’35 e il ’59, l’autore di Guernica (1937) si dilettò quotidianamente con la composizione di versi deliranti, abbozzandoli senza indugio con matite colorate su carta Arches. Egli si dilettò a imbastire giochi di parole nelle sue sofisticate poesie fiume con grande plasticità. Nella Prefazione alle Poesie (Garzanti, 2022) dell’artista spagnolo, Androula Michaël ha ricordato che «Picasso negli anni Sessanta confessò al suo amico Roberto Otero: “in fondo sono un poeta che ha sbagliato strada. Non credi?”».

Domanda che potrebbe sollevarsi anche dalle pubblicazioni di alcuni artisti italiani nati negli anni Settanta del Novecento, precisamente nel decennio in cui si spense l’artista di Málaga. Si tratta di Prisco De Vivo (San Giuseppe Vesuviano, 1971) e di Paolo Maggis (Milano, 1978).
Entrambi accolgono favorevolmente nei loro lavori figurativi l’eredità espressionista, subendo l’influsso delle opere neoespressioniste dei Neue Wilden. La liquidità del colore steso da Maggis sulle sue tele si adatta anche alla pulizia della versificazione di un vissuto biografico teso alla riflessione sullo sbocciare di una nuova esistenza. Ne Il nome di Dio (Samuele Editore, Collana Scilla, 2018), in effetti, è rilevabile una livida riflessione sull’essere umano che partendo dall’individualità sfocia nell’universalità della condizione terrena. Grazie ai suoi versi, Maggis non dialoga solo con sé o con suo figlio, poiché egli rivolge le sue preghiere al cosmo, in un dialogo costantemente aperto; si pensi a versi come quelli di pagina ventisette, che ci consegnano un’amara e disillusa riflessione sulle azioni dei nostri simili:
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Abbiamo chiuso gli oceani in gabbie di cristallo
imbambolati a guardare,
abbiamo chiamato le stelle per nome per farle più
vicine a noi,
abbiamo esplorato pianeti e galassie con lenti d’ignoranza,
viaggiato attraverso i cinque mari per misurarne
la profondità.
Abbiamo distrutto per poter essere padroni,
momentanei signori di un lasso di tempo infinitesimale,
testardi insignificanti nel voler essere Dio.
Abbiamo creato parole per descrivere l’universo,
abbiamo scritto leggi per forzarlo al nostro egoismo,
abbiamo deciso cos’era giusto e cos’era sbagliato
senza nemmeno sapere di cosa stessimo parlando,
abbiamo creato concetti che ci rendessero migliori
applicandoli ottusamente come miopi orgogliosi
di vedere bene.
Abbiamo visto il nostro pianeta dal nostro piedistallo
di cristallo senza comprendere che siamo solo una pulce
caduta, per uno scherzo del destino, in un deserto desolato.
Abbiamo eretto la nostra ragione
a Regina indiscussa del creato.
Abbiamo scelto di essere ingranaggi
piegati dalla nostra stupidità e non avere più sogni.
Se gli esseri umani sono «testardi insignificanti nel voler essere Dio», è tuttavia necessario e possibile uno spiraglio che ci catapulti nel sogno, un augurio di libertà per i nostri figli che continueranno a vivere in «allerta» (p. 57), in questo immane miracolo che è la vita. Nella prefazione a Il nome di Dio, difatti, Alessandro Canzian ha sottolineato che Paolo Maggis «vede nelle formiche tanti punti neri che, pur rimanendo solo dei punti, hanno la grandezza delle stelle. Sono quei punti / che misteriosamente fanno scattare una scintilla / che istantaneamente ti collega a tutto l’universo / e ti fa essere parte armonica./ Io questi punti li chiamo miracoli». Noi tutti siamo quella «pulce/ caduta» (p. 27), noi che decliniamo le nostre esistenze all’ombra dell’amore.

Ed è l’amore che irradia Una bocca di rosamiele (Ensemble, Collana Alter, 2022), ultima fatica poetica di Prisco De Vivo. Maggis cantava soprattutto l’amore per un figlio; qui, invece, si è in presenza di un amore viscerale e sensuale, rivolto incondizionatamente dalla voce poetante alla donna amata. La compagna di una vita, modella in posa per i disegni posti dall’artista a corredo del suo libro, è l’Ornata di fiori che ritroviamo anche in copertina (Prisco De Vivo, tecnica mista su carta, 2019).
L’esergo di Una bocca di rosamiele regala al lettore un incontro fugace con una citazione catturata dagli scritti di Paul Verlaine. La citazione in questione ha lasciato un’impronta nella chiusa del testo che apre Una bocca di rosamiele, il cui compito è sì quello di inaugurare la raccolta (p. 17), ma anche quello di richiamare un barlume di enigmatica oscurità:
Decine di bambine innocenti
ci guardano dall’oscurità il
loro sorriso irrompe le
nostre estasi.
Leggendo quest’ultimo libro di Prisco De Vivo, in effetti, si è impossibilitati a schivare il velato richiamo al suo antecedente Il lume della follia (Oèdipus edizioni, 2019). Con «l’umiltà e il desiderio / di fluttuare come una piuma» (p. 19), vi scriveva De Vivo, nel 2017, la cui penna conserva effettivamente pure tra le righe di Una bocca di rosamiele quella leggerezza del verso che fluttua graficamente sulla pagina, ma che pur sempre insiste sulla violenta materialità delle cose:
Della candida vergine
bacio il seno maculato di nei
un feroce piacere
mi si schiude
alle labbra.
I vecchi per la strada
mi domandavano di lei
se imbrattavo di urina
ed escrementi quel fragile corpo.
Dunque, punto di contatto tra le due sillogi resta «il linguaggio scarno e variegato [che] si adegua alla forma epigrammatica» dei componimenti di questo eclettico poeta nostrano, il quale, trincerandosi ad inseguire la luce, sottrae «alle cime clamorose dell’assenza» (p. 23), quella «roteante “pulsione della carne”» (p. 26) e lo «ossigena» (p. 30).

Vernalda Di Tanna
Demetra dormiente
Distesa,
adagiata a un letto di fumo,
di vento e di viole.
Demetra
caduta nell’astenia,
nelle vertigini del sonno
regalami
il tuo tremore lieve
lascialo cadere
su quel cuscino
e su questi occhi
palpitanti di timore.
Nevosa Leda
Corpo giunonico,
nevosa Leda
m’impasto alle tue braccia
al sudore delle tue natiche
aiutami a salire
le scale umide della mia solitudine.
Allunga quella mano
all’immobile
a questo dolce abisso
che vuole inghiottirmi.
Convivium
Il locale è bello
non vi è dubbio
ma cosa ci faccio qui?
Ti ho portato
nel tempio dell’opulenza
prosciutti
appollaiati ai soffitti
come colombi
pizze roteanti
allo zolfo e alla cannella
una fabbrica di sfizi e sfarzi.
Coriandoli di vaniglia
con il pepe attaccato
scendono
ai nostri tavoli
tutto può esplodere
e noi
siamo seduti qui.
Ero venuto
per cercare buona gente
e pace che non vedo
ti racconto
delle tante cadute
e del mio sole che non risorge.
Sei distratta,
non mi ascolti.