BOLOGNA – Sono stati pubblicati su “Scientific Reports”, rivista del gruppo Nature, i risultati degli studi su quelli che, al momento del loro ritrovamento in una necropoli di epoca tardo-antica nel 2009, furono ribattezzati come “gli amanti di Modena”.
All’epoca i due individui, in pessimo stato di conservazione, si pensava fossero un uomo e una donna. Oggi nuove ricerche dell’Università di Bologna smentiscono questa ipotesi. Si tratterebbe infatti di due uomini. Il risultato rende ora ancora più particolare questa tomba, che dal 2014, in seguito ad un progetto di restauro e valorizzazione, è visibile nelle sale del Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena.
Come spiegato dal ricercatore dell’Università bolognese, Federico Lugli, “allo stato attuale non si conoscono altre sepolture di questo tipo. In passato sono state trovate diverse tombe con coppie di individui deposti mano nella mano, ma in tutti i casi si trattava di un uomo e una donna. Quale fosse il legame tra i due individui della sepoltura modenese, invece, resta per il momento un mistero”. ”In letteratura non esistono altri casi di sepolture con due uomini deposti mano nella mano: non era certamente una pratica comune in epoca tardo-antica. Tra le diverse ipotesi in campo quella degli amanti sembra essere la più remota”. – Sottolinea Federico Lugli – “In epoca tardo-antica è improbabile che un amore omosessuale potesse essere riconosciuto in modo tanto evidente dalle persone che hanno preparato la sepoltura. Visto che i due individui hanno età simili, potrebbero invece essere parenti, ad esempio fratelli o cugini. Oppure potrebbero essere soldati morti insieme in battaglia: la necropoli in cui sono stati rinvenuti potrebbe infatti essere un cimitero di guerra’’. conclude.
Considerato il pessimo stato di conservazione delle ossa, i ricercatori sono arrivati a queste conclusioni utilizzando una nuova tecnica basata sull’analisi dello smalto dentale. Un tecnica che – come spiega Antonino Vazzana ricercatore dell’Università di Bologna e tra gli autori dello studio – “può rivelarsi determinante per la paleoantropologia, la bioarcheologia e anche l’antropologia forense in tutti quei casi in cui il pessimo stato di conservazione dei resti o la giovane età degli individui rende impossibile determinare il sesso a livello osteologico”.
Lo studio è stato condotto da un gruppo di ricercatori del Laboratorio di Osteoarcheologia e Paleoantropologia, diretto dal prof. Stefano Benazzi presso il Dipartimento di Beni culturali dell’Università di Bologna che comprende: Federico Lugli, Antonino Vazzana, Elisabetta Cilli, Maria Cristina Carile, Sara Silvestrini, Gaia Gabanini, Simona Arrighi Laura Buti, Eugenio Bortolini, Anna Cipriani Carla Figus, Giulia Marciani, Gregorio Oxilia, Matteo Romandini e Rita Sorrentino.
Hanno partecipato inoltre studiosi dell’Università di Modena e Reggio Emilia: Giulia Di Rocco, Filippo Genovese, Diego Pinetti e Marco Sola.
Il progetto di ricerca è stato condotto in collaborazione con i Musei Civici di Modena e con la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e per le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara.
I risultati verranno presentati il prossimo autunno, dagli autori dello studio, l’equipe di antropologi dell’Università di Bologna e gli archeologi della Soprintendenza e del Museo Civico Archeologico di Modena in una conferenza pubblica che si terrà a Modena presso le sale dei Musei Civici.