Esistono spazi che sono luoghi neutri dove si adattano i contenuti entranti con la loro costante variabilità teorica; e poi esistono spazi che sono geografie veggenti, intrecciate ad una radice di storie omogenee, al punto da trasformare le ragioni architettoniche nei capitoli abitabili di un romanzo unitario. Il MAST di Bologna appartiene a questa seconda categoria con una storia che parte dal rigore visionario di Isabella Seragnoli, industriale di pura luce che esprime il suo valore d’azienda nei terminali minuziosi del Gruppo Coesia, ad oggi il miglior referente filantropico nel collezionare l’oggetto che dà senso al proprio senso, ovvero, la Fotografia dell’Industria e del Lavoro. Che poi, riavvolgendo i decenni che ci portano ad inizio Novecento, significa attraversare la storia stessa del mezzo fotografico, nato a stretto contatto con le realtà del progresso, con l’epica moderna dei magnati utopici, con le mille storie umane che hanno cercato una documentazione pedagogica per il mondo a venire.


Dopo la sbornia sudata di Arte Fiera e Art City nel loro primo tentativo di collocazione primaverile, vi consiglio un detox tour tra i musei e le fondazioni cittadine. Iniziate il giro dal MAST, lasciandovi avvolgere dall’impatto ergonomico delle architetture firmate Labics, il team che ha dato forma spaziale al sogno concreto della famiglia Seragnoli. Il luogo è sensazionale per rigore ascetico, tensione in equilibrio, uso metodico del vuoto, funzionalità esteticamente argomentate. Un oggetto urbano che diventa soggetto di quartiere con la sua personalità netta ma dialettica, con le sue sculture che diventano frammenti di un landmark rigoroso ma seducente, essenziale ma ricco di empatia e sviluppo rizomatico.


La Collezione MAST (fino al 28 agosto, ingresso gratuito, mast.org), partendo dalle linee seminali del XIX e inizio XX secolo, si allarga ai migliori autori contemporanei che hanno alimentato la metodologia del piano curatoriale. Per la prima volta la Fondazione MAST presenta una selezione di oltre 500 immagini tra fotografie, album e video della collezione, lungo una divisione in 53 capitoli tematici. Un volo pindarico tra panoramiche e primi piani, bianconero e colore, piccoli e grandi formati, mantenendo costante la tensione documentaristica dei progetti, la forza degli eventi reali dietro l’estetica di una stampa fotografica. Un nucleo significativo per comprendere il valore sociale del museo dentro la fabbrica, per ascoltare gli echi morali di un processo che allarga l’industria al tessuto civico, per valutare appieno i doni mecenatistici di una collezione che parla di Lavoro come chiave sociale evoluta, senso dell’essere in una società ideale che tiene l’umanità al centro vitruviano degli eventi collettivi.


La linea espositiva è quella di un alfabeto, allestito sulle pareti museali per esaltare un sistema concettuale che parte dalla A di “Abandoned” e giunge alla W di “Wealth”. La struttura di raccolta evoca connessioni e interazioni non didascaliche, stimolando valutazioni a raggio ampio, in bilico costante tra le indicazioni teoriche e l’interpretazione ulteriore dei singoli sguardi. Il pubblico avrà molteplici stimoli che apriranno prospettive sulle origini della modernità urbana, che dischiuderanno le radici di tante invenzioni per noi naturali, che lanceranno spunti per comprendere la complessità dietro gli eventi. Una collezione che disegna galassie interconnesse, dove la fabbrica diviene l’archetipo della grande rivoluzione industriale, il luogo che muove il progresso e intercetta le soluzioni per un futuro migliore. Vedere questo nella “casa” della più grande azienda italiana per le soluzioni industriali di alta precisione, significa assistere ad un’integrazione virtuosa tra la veggenza della leadership e la forma costante di un’etica esemplare.
Come canterebbe qualcuno: Show MAST Go On…