Già qualche tempo fa si ebbe l’occasione, qui in Italia, grazie all’infaticabile lavoro da pontiere di Gaetano Di Gesu, di conoscere le opere fotografiche del maestro Hu Wugong, attraverso il quale si poté scoprire un’importante generazione di fotografi cinesi – tra i quali si segnalano Hou Dengke, Shi Baoxiu e Pan Ke – che genericamente si potrebbero definire “realisti”; ora, grazie a questa mostra, la portata di questa “scuola” diviene ancora più chiara, e permette di analizzare più compiutamente quella parte di arte fotografica cinese meno sperimentale, cioè meno moderna, ma più gravida di tensioni temporali, etiche e sociologiche.
Il tema comune ai fotografi dello Shaanxi è il racconto della realtà cinese senza pregiudizi e senza intenti propagandistici. La loro Cina, quasi sempre rurale, appare per quello che è. Sembra assai lontana la Cina più avanzata e spregiudicata che divora stili universali contaminando alto e basso, orientale e occidentale, mercato e spiritualità, angoscia ed euforia. Al contrario, in queste foto si è stabilmente fermi intorno al principio di realtà: una realtà umile, dimessa, faticosa, spesso desolata, crepuscolare.
Ogni loro fotografia è certamente un “documento”, ma questo non basta a spiegare l’importanza di queste foto definite da qualcuno, polemicamente, “deprimenti”, oppure “fuochi freddi”. Deprimente, verrebbe da dire, è il destino umano, specie quando si è compiutamente dominati da quella profonda e silenziosa solitudine che di Di Gesu, parlando dei cinesi, ha così descritto: “Un popolo silenzioso che non si guarda e non si parla e invecchia anche inesorabilmente”.
Queste foto sono solo una parte delle tante verità della Cina di oggi; di verità ce ne sono anche altre ma, intanto, questa Cina umile, “silenziosa” e invisibile c’è, ed è assai probabile che tutto il “balzo in avanti” della recente modernità cinese non sia altro che una violenta reazione o rimozione di quella realtà dove l’uomo viveva e vive il faticoso bisogno terreno umilmente confuso nella moltitudine con il solo conforto, o sconforto, dell’unica dimensione individualistica possibile, ovvero la solitudine, un’ansia impalpabile di soccombere.
Tutte queste foto hanno in comune un elemento eterno e immobile – una struttura interna solidamente ciclica. Eppure, a guardarle attentamente, sono intimamente mosse. Di che movimento si tratta? Cosa le rende così scosse? Certamente un’ansia. Ma di che ansia si tratta? L’ansia del bisogno, di non riuscire a fare i propri doveri, di essere puniti uscendo dal seminato. A testa bassa, i contadini cinesi immortalati dai fotografi dello Shaanxi sono in cammino nel loro cerchio eterno, e non si fermano mai. Il dolore se lo tengono dentro; e, forse, non hanno nemmeno il tempo – o la dannazione, tutta moderna – di trasformalo in racconto, o in un’esplicita resa. E quando anche percepiscono di essere osservati dall’obiettivo del fotografo, essi solo per un attimo prendono consapevolezza di essere degli individui sganciati da un oscuro flusso che li guida nel tempo. Subito dopo essi tornano ad essere destino: destino nella moltitudine. E dolcissime solitudini di una lunga marcia di cui s’ignora l’inizio e la fine – e il fine.
Queste foto non indicano soltanto una civiltà che sta per soccombere o un’utopia antimodernista. Piuttosto sono scavi nella psicologia della Cina profonda, un popolo cha al suo massimo grado di dolorosa saggezza fa coincidere il destino umano con l’annullamento di sé, come intuisse, la grande sapienza cinese occultata eppure viva sotto la cenere, le trappole del piacere come ideologia, che rendono ancora più acuta e agghiacciante la consapevolezza della solitudine.
{igallery id=3504|cid=679|pid=1|type=category|children=0|addlinks=0|tags=|limit=0}