“Come davanti a un giardino profondo” anch’io ho sostato come Gabriele D’Annunzio davanti alla “Vera Croce” della basilica maggiore di San Francesco ad Arezzo.
Porsi sotto la luce di Piero della Francesca significa immergersi in una luce dorata, preziosa e non soltanto divina, perfettamente prospettica.
Se l’uomo fosse ciò che vede, allora, guardando le opere del “monarca della pittura”, saremmo tutti degli angeli.
Riconosciuto il Novecento come il secolo di Piero, perché il XXI non potrebbe essere il tempo della sua rinascita?
La risposta è no. Perché il suo mito è senza tempo, “senza eloquenza”, senza storia.
Presso i Musei San Domenico di Forlì, Piero della Francesca troverà dimora fino al 26 giugno 2016, in una monumentale mostra, col sottotitolo “Indagine su un mito”, di circa 200 opere, che riuniscono il raro nucleo del grande maestro insieme ad aperti confronti con artisti suoi contemporanei e a lui successivi, fino alla pittura del Novecento.
Mi sono addentrata nel corpo dell’edificio tra le geometrie della natura e ho trovato così «il pittore della pelle delle cose, delle armi splendenti, del pulviscolo d’oro sui capelli degli angeli (la “Madonna di Senigallia”), dell’ansa del Tevere nel quale si riflettono gli alberi e il cielo (la “Vera Croce”), delle nebbie argentee stagnanti nelle valli del Montefeltro (il dittico dei Duchi agli Uffizi), delle nuvole toccate di rosa nell’alba della “Resurrezione” (il murale del Museo Civico di Borgo San Sepolcro)» (Antonio Paolucci). E questa è la storia di un viaggio nell’Eden dell’arte.
Tutto prende inizio dalla meta-mostra dedicata a Piero della Francesca.
Il numero di originali dell’artista è estremamente ridotto: “sintesi prospettica di forma-colore”.
La “Madonna col bambino” è tra le aggiunte rispetto alla monografia delle sue opere del 1927. Ultima tra le attribuzioni, sono i primi occhi del pittore dei “minima di verità e natura” che incontro. Ripercorrendo la strada già battuta nel Quattrocento, tra Donatello e Domenico Veneziano, l’artista cerca una sua dimensione e la trova nella pelle eburnea di Madre e Figlio, nella monumentalità del corpo della Vergine, nella piega dei suoi drappi poggiata sullo stipite del davanzale, nell’uccellino stretto con forza nella mano destra del Bambino, dei tocchi di bianco che plasmano il rosso corallo al collo del bambino… Lo sfondo è assente, le aureole fisicamente presenti. La luce di Piero si accende.
Fuori “de Burgo” è “San Girolamo in preghiera con un donatore”. Tutto è silenzio ma regna una profonda eloquenza. Girolamo, dottore della chiesa, uomo di grande cultura si trova all’aria aperta, tra la parole di Dio (la Bibbia) e Dio stesso; venerando Cristo si rivolge al devoto che gli è accanto.
Volendo comprendere la spazialità di Piero attraverso l’intervallarsi regolare dei suoi volumi irregolari, «potremmo leggere questa composizione come un parallelepipedo sormontato da una sfera (il santo), due cilindri (i due tronchi d’albero) e un cono (il devoto)» (Roberto Longhi).
Nella breve storia della prospettiva, Piero della Francesca ha giocato un ruolo fondamentale. Il “De prospectiva pingendi”, il “Trattato d’algebra e geometria” e il “Libellus de quinque corboribus” sono i tre capolavori del “miglior geometra che fusse ‘n tempi suoi” secondo Vasari. Seguendo gli insegnamenti di Leon Battista Alberti, fu egli stesso modello per Leonardo Da Vinci e il suo “Trattato della pittura”.
Piero insegnò al Rinascimento il “disegno”, come dipingere le singole figure e la “commensuratio” (come disporle nello spazio), e il “coloro” (come colorarle). Codificò per primo le regole della moderna scienza prospettica, e oggi risuonano potenti echi di voci lontane che lo esaltano come uno dei padri della scienza e del moderno disegno tecnico. E nell’osservare i suoi testi, sembra di “ricevere lumi”.
Mentre ferma, immobile, “columna fortissima” è Santa Apollonia; l’oro della “Madonna della Misericordia” insieme a lei abbraccia e rifulge di fortissima luce, centrale nell’omonimo polittico così come nella sala dell’esposizione e nella vita dell’artista. La Vergine apre il suo mantello e solo il priore, i consiglieri della Confraternita della Misericordia e le donne trovano spazio sotto il femminile simbolo della Madre Chiesa. I personaggi raffigurati seguono una curva impostata dal disegno preparatorio che permette loro di cingere e abbracciare la monumentale Madonna. L’umano e il divino s’incontrano. Tento di osservare il volto di Maria. Rimango però accecata e allo stesso tempo in uno stato di afasia: il suo viso è sole e i raggi che da essa si diramano brillano di luce riflessa. Non riesco a inginocchiarmi insieme ai seguaci fedeli. Resto a osservarla immobile sotto l’ala protettiva dell’ombra che lei stessa emana.
Pittura di luce è l’opera di Piero. Attraverso Masaccio, Masolino, Veneziano e Paolo Uccello prende forma questo “splendore zenitale”.
Si prospetta una perfetta prospettiva a partire dal “Pagno” di Lapo Portigiani proveniente originariamente dal tempietto della Santissima Annunziata di Firenze. Sul marmo si percepiscono latenti le rare tracce di doratura che accompagnano le mezze lune geometriche e sinuose che dal volto del “monstrum in rerum natura” si diramano.
Culmine assoluto di questa divina proporzione è il “mazzocchio tirato con linee sole” che Vasari definì “tanto bello” da non poter essere attribuito a nessun altro se non a Paolo Uccello. Ingabbiato il corpo geometrico in una struttura razionale della realtà, vedo prendere vita i tratti a matita così come avevo percepito fisicamente presente la “Madonna con il Bambino” di Filippo Lippi ed “Ester” di Andrea del Castagno. Quest’ultima, la regina, ha lo sguardo fiero, coraggioso, potente e allo stesso tempo soave, rivolto alla sua sinistra. Procedo dalla “Summa de Arithmetica” di Luca Pacioli ai solidi perfetti del “De Divina Proportione”: testimonianza che l’autore di una generazione successiva a Piero della Francesca sintetizzò nei suoi trattati gli scritti di Alberti, dello stesso Piero e di Vitruvio.
Il linguaggio pierfrancescano diventa il vocabolario dell’arte del XV secolo. Non solo in Toscana ma anche in Emilia, Veneto, Umbria… Tutta l’Italia vive nella luce di Piero.
I più veloci banditori del modello di Piero della Francesca sono Cristoforo e Lorenzo da Lendinara attraverso la tecnica della tarsia. Longhi narrava che i due artisti fossero i possessori di cartoni forniti loro da Piero “con diritto di riproduzione illimitata”, ma infine questa ipotesi è venuta meno. Nell’“Adorazione del Bambino con San Bernardino e l’Eterna benedicente”, del primo dei due fratelli, insieme alla “sintesi prospettica di forma-colore”, il volto di forma ovoidale della Vergine, le pieghe della sua veste, il paesaggio, gli alberi, le vie, il cielo tutti sono evidente eco del maestro toscano. E intanto l’imponente cornice a sfondo non naturalistico appare in assoluto contrasto con la piccolezza di giocattoli e angeli che si trovano intorno al Bambino.
Più bianco del marmo bianco di cui è fatto, così compare l’eburneo “Busto di Battista Sforza”. Spogliata del colore, l’opera di Francesco Laurana accoglie lo spettatore con gli occhi bassi, la fronte alta e sotto il naso aquilino nasconde le labbra lievemente socchiuse. Non parla, respira.
Di tre in tre: “San Vincenzo da Saragozza, Santa Illuminata, San Nicola da Tolentino” di Antoniazzo Romano e la “Madonna in trono tra i santi Giovanni Battista e Filippo Benizi” di Marco Palmezzano accompagnano il mio sguardo. Un libro, un vascello, una piuma, un giglio… Su fondo oro, vedo i colori chiari e trasparenti della veste di San Vincenzo e le ombre diafane proiettate sulla dalmatica color malva, vedo la ruota ricoperta di Santa Caterina trasformata in Sant’Illuminata, vedo il saio agostiniano di San Nicola che nella versione originale avrebbe dovuto essere francescano e indossato da Sant’Antonio da Padova. Ciò che non vedo è stato coperto e rielaborato da Francesco Melanzio. Lasciato il mare dorato che circonda angeli, santi e figure amate da Dio, Marco Palmezzano riconduce il mio sguardo in un universo naturalistico, geometrico e perfetto il cui culmine massimo diventa il basamento “a mazzocchio” del trono della Vergine.
Malgrado il ruolo centrale della figura di Piero della Francesca nel XV secolo, la conoscenza delle sue opere è rimasta a lungo nell’oblio. Iniziarono a riaccendersi fuochi di ispirazione e recupero soltanto a partire dal XVIII secolo e dal procedere delle istanze illuministe fino a che non venne universalmente riconosciuto come «Un de’ pittori da far epoca nella storia» (“Storia pittorica della Italia”, Luigi Lanzi, 1792). Numerose storie della pittura italiana seguirono, e la fama dell’artista superò così i secoli e le correnti, arrivando all’occhio di George Seurat, alla mano di Bernard Berenson e alla “Voce” di Giuseppe Prezzolini.
E mentre Charles Antoine Joseph Loyeux riscopre la “Vera Croce”, Austen Henry Layard ne disegna “La Leggenda”; è di “Federico da Montefeltro” il profilo più copiato e riprodotto. Da qualsiasi parte e/o autore io provi a osservare il volto mediceo, scorgo sempre e solo il suo lato sinistro. Il suo occhio destro accecato durante un torneo nel 1450 resterà eternamente nascosto. Perfettamente e costantemente geometrico è invece il “Vaso prospettico” di Gio Ponti: un “corpo regolare” nato dal connubio tra moderno e antico con la Manifattura Richard-Ginori. Tra “Il canto di uno stornello” di Silvestro Lega, “Le ricamatrici” di Adriano Cecioni e la “Poseuse de profil” di Seurat, la “Giovane dama senese” di Mussini ricorda le dame dell’“Incontro di re Salomone con la regina di Saba”; la “Semiramide che costruisce Babilonia” si ispira nella sua complessità a “L’adorazione del sacro legno”; e, con “Le ballon” e “Le pigeon” di Pierre Puvis De Chavannes, Piero della Francesca scopre il cielo da guerra sopra Parigi. Dopo la “confusione” delle avanguardie storiche, l’arte torna alla “pura pittura”.
Se «vi è uno spirito italiano in pittura, noi non lo possiamo vedere che nel Quattrocento», affermava De Chirico. A unire Guidi, Carrà, Casorati, Funi, Morandi è il rigore geometrico ed estetico rappresentato da simboli perfetti come le uova che nelle opere ricorrono e sono desunte dalla pala di Brera di Piero.
“L’amante dell’ingegnere” di Carrà e “Silvana Cenni” di Casorati sono due omaggi a Piero della Francesca, alla sua “Madonna della Misericordia” e al “Ritratto di Battista Sforza”, verso il recupero di un’identità “italiana e mediterranea”.
Sotto il cono di luce di Piero della Francesca può essere visto Morandi, uno fra quelli che portò in Italia Cézanne.
“Le uova sul cassettone” di Felice Casorati sembrano cadere dalla superficie, mentre l’ordine di Morandi e Guidi e delle loro nature morte risulta perfetto. Le donne di Massimo Campigli continuano a cucire, la famiglia di Pietro Gaudenzi a festeggiare le nozze, i personaggi di Gregorio Sciltian a pettinarsi e prepararsi con rigore.
“Piani convergenti verso un asse centrale”, “contorni semplici”, “movimento arretrato”, “gesti sospesi”, “illuminismo arretrato”: Severini, Carrà, De Chirico, Piero della Francesca parlano la stessa lingua.
«Come l’universo è determinato dallo spazio e dalla luce: dal volume come accidente dello spazio, e dal colore come accidente della luce, così l’arte della pittura deve essere spazio, luce, volume, colore ai fini della creazione». Mentre si affermava il “Manifesto del Primordialismo plastico”, cominciava una nuova e fortunata fase di riconsiderazione della pittura del Quattrocento e, in particolare, di Piero come autore e motore di modernità e di “naturalismo magico”.
In questo Novecento, le “Donne” di Antonio Donghi scendono le scale, i giovani di Gianfilippo Usellini cantano in coro, gli “Atleti” di Carlo Carrà si riposano e Massimo Campigli decide di dipingere “La fotografia”.
Apro gli occhi e per poco resto accecata dall’intensa luce di Edward Hopper che ricopre i palazzi e le vedute urbane. Alcuni vi scorgono riflessi del “lume zenitale” del maestro toscano a cui l’esposizione è dedicata. Ma io più guardo “Manhattan” e più il calore solare di Piero della Francesca si fa asettico e chirurgico, quasi rigido. Balthus definiva invece la pittura dei primitivi italiani come “sacra” e per ben cinque anni attese devotamente l’incontro col suo maestro ideale. La “Jeune fille à sa toilette” è ieratica come un idolo mentre il “Sogno di una notte di mezza estate” è poeticamente dominato da quel “fiabesco notturnale” e dallo “sguancio di plenilunio” propri del “Sogno di Costantino”.
Cézanne spiegava Piero e Piero spiega Cézanne.
Piero ci spiega Severini, Soffici, Hopper e Balthus.
In particolare, Balthus sognava Piero. Chissà se Piero sognava un mondo futuro con la presenza di Balthus.
Se c’è una cosa che l’arte del Quattrocento mi ha insegnato è il punto di fuga. «Un punto verso il quale le linee parallele sembrano convergere». E finalmente oggi ho trovato il punto centrale dell’arte.
Articolo, testo e immagini di Eloisa Reverie Vezzosi da http://www.artmoodon.com/2016/03/nella-luce-di-piero-della-francesca-forli/
Abito: Antonio Marras – I’M Isola Marras
Foto: Lawrence Oluyede
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