Gianni Berengo Gardin, testimone inarrivabile dei suoi e dei nostri anni, è morto nella tarda serata di mercoledì 6 agosto. «Non mi chiami artista, la prego. Tantomeno maestro. Non lo sopporto» mi disse nel 2013, in una lunga intervista. E quell’aria di disincantato testimone che si portava dietro tutto il peso dell’indagine sociale della sua immensa fotografia, non l’ha mai abbandonato, lontano anni luce dalle manie di protagonismo di molti suoi illustri colleghi.
Nato a Santa Margherita Ligure, Genova, il 10 ottobre 1930, era però originario, e legatissimo, a Venezia dove aveva trascorso l’infanzia e dove aveva studiato. Dopo il trasferimento a Milano si era da subito dedicato alla fotografia sociale capace di indagare a fondo i fenomeni dell’epoca. E fedele a questo spirito avrebbe così realizzato con Carla Cerati Morire di Classe il famosissimo reportage sui manicomi italiani che avrebbe fatto conoscere la «battaglia» di Franco Basaglia. Ne ricordava ancora lo shock di «Entrare e trovare persone legate nei letti, oppure strette dalle camicie di forza. La disperazione dei loro occhi. Basaglia fece una rivoluzione già togliendo le sbarre alle finestre. Mi sentii il testimone di un passaggio epocale».
Nel 1965 si stabilì a Milano, ma visse anche a Roma, a Lugano e ovviamente e Venezia. Nel capoluogo lombardo cominciò con i reportage, l’indagine sociale, e la documentazione. Arrivarono le prime foto pubblicate, nel 1954, su «Il Mondo» di Mario Pannunzio, con cui avrebbe collaborato fino al 1965. Quindi i libri fotografici frutto di collaborazioni anche con il Touring Club Italiano e con l’Istituto Geografico De Agostini. Nel 1963 era stato premiato dal World Press Photo. Mentre nel 1995 vinse il Leica Oskard Barnack Award ai «Rencontres Internationales de la Photographie» di Arles. Fu sempre un grandi e appassionato estimatore della macchina fotografica Leica che amava portare sempre con se per paura, disse una volta, di perdere la foto giusta. A Roma, al MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo, dal 4 maggio al 18 settembre 2022, avevo esposto la sua bellissima personale in bianco e nero Gianni Berengo Gardin. L’occhio come mestiere.
Tra le sue ultime fatiche l’autobiografia con immagini, In parole povere, pubblicata da Contrasto nel 2020, e la mostra curata da Margherita Naim e Giangavino Pazzola negli spazi torinesi di Camera dedicata alla sua collaborazione con Olivetti. Qual è la fotografia perfetta? Gli avevo chiesto undici anni fa. La sua risposta, sempre attuale: «In bianco e nero, in pellicola e destinata alla carta stampata. Tutto il resto è un’altra cosa».