“La street art si è allontanata molto dalle sue origini vandaliche, é oramai una forma d’arte digeribile, illustrativa e accogliente per una generazione che è politicamente attiva e alla ricerca di una voce” lo sostiene nel 2017 la direttrice della Moniker Art Fair, Tina Ziegler, sul Financial Times. In altre parole, la Ziegler sostiene che il mercato ha mostrato interesse per la street art, alcuni artisti hanno raggiunto quotazioni importanti e stanno lasciando il segno anche nel mercato dell’arte, ma la street art è pronta ad affrontare il mercato? E poi esattamente cosa intende la Ziegler per street art nel mercato? E in Italia qual è il rapporto tra street art e mercato dell’arte? Artisti come Ozmo, Sen Lex, 108, Eron, Diamond, Andreco, Moneyless, Hogre, Lucamaleonte rappresentano il meglio della pittura urbana italiana e producono opere per il mercato, che quotazioni hanno raggiunto? Sappiamo che Blu ha quotazioni stellari ma non produce opere per il mercato, almeno in apparenza. Sembrerebbe che il mercato in Italia non sia così entusiasta della street art, le gallerie urban non si moltiplicano, anzi chiudono, molti degli artisti sopracitati rifiutano l’etichetta di street artist e non vogliono neanche sentir nominare la parola street art, i pochissimi artisti che hanno quotazioni su Artprice presentano quotazioni basse, pur se alcune gallerie tradizionali hanno iniziato ad approcciare questi artisti, nessuna galleria importante ne ha adottato uno, ad esempio in Francia, JR lavora con Perrottin, la stessa galleria di Maurizio Cattelan e Invader ha fatto 1.2 milioni di dollari in asta. In Italia non c’è traccia di questo aspetto della fenomenologia della street art, quale potrebbe essere il motivo, i nostri artisti sono forse peggiori?
Tutt’altro, io credo che siano decisamente migliori, tuttavia, in Italia sussiste da una parte un sistema culturale istituzionale ripiegato sotto il peso dell’eredità e incapace di “comprendere” cosa e come valorizzare i giovani artisti, dall’altra un ambiente culturale endogeno devoto alla contrizione, all’autoflagellazione, all’autodenigrazione che potrebbe avere effetti di causazione sistemica su questo tema. Proverò ad esporre una libera riflessione di cui spero perdonerete in anticipo la porosità strutturale.
Sembra aver conquistato una certa diffusione, l’opinione che la street art è street art solo se in strada e illegale. E allora di cosa parla Tina Ziegler che non è propriamente una neofita dell’arte? La sua semplice affermazione (ma avrei potuto produrre migliaia di esempi) sembra mettere in crisi l’opinione per la quale la street art è street art solo se in strada e illegale e parrebbe disvelare la pretesa tutta cartesiana di definire, cristallizzare, perimetrare, confinare significato e senso, proprio mentre il tempo storico in cui questa pretesa viene avanzata, si presenta evidentemente anticartesiano, passionale e polisemico. Il lemma street art, come la sua rappresentazione cognitiva, è chiaramente portatore di eccedenza di senso, e invece di favorire la sua fioritura in specie, la componente più arretrata e identitaria del “mondo della street art” produce e prova a imporre un pensiero che incasella, irrigidisce, riduce, esclude, sovranizza, trova e cerca pericoli, denuncia degenerazioni, al punto che potrebbe somigliare alla stessa aiuola concettuale in cui è cresciuta la Entartete Kunst. Un’attività che opera attraverso la produzione di intere cosmogonie deterministe tra street art e writing che evocano continuamente l’origine e nel farlo svelano la miopia fallace di questa prospettiva solipsisitica alimentata dall’ossessione narcisistica per la propria cultura. Mentre la street art si presenta inclusiva, c’è chi la vorrebbe esclusiva.
La Ziegler parla di quadri, di pittura, che la street art recupera, rivitalizza, anche nella forma-quadro, ovvero nel mercato, liberando quello che Gianlunca Marziani potrebbe definire un Quadro Urbano Contemporaneo. Secondo queste teorie, nella forma quadro, la street art dovrebbe perdere totalmente la sua peculiarità che alcuni ritengono costitutiva. Come già detto, è opinione diffusa che questa idea che unisce “arte” e “strada” trovi la sua dimensione cruciale nell’essere un’arte situata, site-specific si sarebbe detto un tempo, e che fuori dal questa “situazione” essa perda il suo senso, e quindi il suo significato o buona parte di esso. Sicuramente questa prospettiva è fondata ma solo nella specificità dell’opera. Sussistono interventi di pittura urbana che integrano il contesto nella propria figurazione in modulazioni più o meno intense, tuttavia la maggior parte degli interventi non subirebbe nessuna mutilazione semantica se fosse inserito in un contesto diverso, anzi, alcune di queste opere, le migliori potremmo dire, se decontestualizzate mostrano la capacità di “curvare” a loro vantaggio qualsiasi contesto. I sostenitori della dipendenza dell’opera dal contesto non sembrano tenere conto di tre aspetti, il primo è che nell’orizzonte temporale-storico i contesti cambiano e pensare di difendere il portato semantico di un’opera difendendo la sua situazione contestuale significa pensare in termini di cristallizzazione del reale quando invece questo appare impermanente e mutevole.
Il secondo aspetto riguarda la relazione che l’opera istituisce con il contesto, l’ambiente. Tendiamo fondamentalmente a rappresentare strutture e natura “intorno a noi” nella nozione di “contesto” autoescludendoci da questa rappresentazione, residui di antropocentrismo probabilmente, poiché appare evidente che “il contesto”, ovvero l’ambiente, deve includere i soggetti e non essere “centrato” sui soggetti, in altre parole: noi siamo ambiente. Le pratiche spontanee di accudimento che singoli o gruppi di soggetti mettono in atto nei confronti di dipinti murali per proteggerli, o la semplice attività di presidio osservativo da parte delle comunità di prossimità, sono pratiche di contesto, sono risposte ambientali. Il loro emergere sembra essere conseguenza del legame emotivo-simbolico che l’opera riesce a istituire con i soggetti, il “contesto” umano investito dall’agentività comunicazionale dall’opera, tende a percepire l’opera stessa come propria e potrebbero presentarsi infinite ragioni per decidere di decontestualizzare l’opera e innescare un processo antropologico ancestrale di culto tra gruppi umani e immagini. Un colpo al cuore per la rigida coscienza infelice dei sostenitori della street art illegale che ci informerebbero con solerzia che purtroppo, decontestualizzando l’opera, questa non ha più senso. Come se il senso di un opera non dipendesse in modo integrale dalla capacità cognitiva del nostro cervello – perfettamente in grado di ricontestualizzarla nella dimensione della mente con risvolti fisiologici sorprendenti – ma da chissà che.
Il terzo aspetto riguarda il limite di questa idea, essa appare riferirsi solo ed esclusivamente all’aspetto performativo, sembra preoccuparsi di fornire un ethos all’idea di collocare immagini in forma autoconvocata nello spazio pubblico da parte di una istituzione della società che non ne ha legittimità: l’individuo. Certo i processi sono importanti così come gli aspetti concettuali e performativi di una rappresentazione, tuttavia questi aspetti non appaiono più importanti del suo contenuto rappresentazionale e, nello specifico della street art, della suo regime estetico.
Da questa prospettiva non sembra avere senso parlare di street art, se non come terreno germinativo, come urszene di un’idea di arte, e le spinte definitorie e costringenti dei sostenitori della street art illegale potrebbero apparire come l’ossessiva reiterazione di evocare quella urszene, quella scena primaria, come se ogni volta che accendessimo lo smartphone qualcuno si preoccupasse di ricordarci che la vera tecné, quella originale, autentica è la clava. Le scene si aprono, conquistano il mondo, si evolvono, fioriscono, prendono nuove strade, succede sempre nell’arte, prendete il rock, o il rap. L’altro piano sul quale ha senso parare di street art è quello estetico, tuttavia non tratterò questo aspetto in questo articolo poiché è tema complesso che credo meriti un sua propria trattazione.
La Ziegler parla quindi di street art su quadri, e tutti capiamo cosa intende, tuttavia una parte della comunità artistica sente il bisogno di problematizzare l’intero portato illocutivo di questa idea contorcendosi su questioni epistemologiche che appaiono prive di qualsiasi interesse rispetto al nucleo fenomenologico della street art in termini di rappresentazioni, immaginari, modi di produzione, estetiche ecc. ecc. In ogni singola fiera in cui mi sono recato negli ultimi dieci anni, da Artissima ad Art Basel Miami, i galleristi indicando specifici quadri, informavano i collezionisti che si trattava di street art, tutti sembravano capire cosa intendesse, in un’occasione ho fatto un piccolo esperimento, mi sono avvicinato ad uno dei collezionisti e gli ho detto “non è street art, la street art è in strada” mi ha guardato sorridendo e mi ha risposto “si, venti anni fa”. Ora che abbiamo la street art sui quadri, possiamo parlare di arte e mercato.
L’arte e il mercato dell’arte sono ovviamente due cose differenti, la prima riguarda cose da dire al mondo la seconda riguarda il possedere cose capaci di dire cose al mondo. Come in una tragedia Shakespeariana però, questi destini sono intrecciati e questo intreccio segue le traiettorie indefinibili dell’amore. Il semplice desiderio di possedere queste cose capaci di dire cose al mondo, costituisce il dispositivo attivatore del mercato dell’arte in grado di generare plusvalori enormi. Queste cose capaci di dire cose al mondo sono generalmente oggetti (materiali o immateriali) e vengono classificate in base ai supporti (es. tele) o ai materiali (es. marmi, mixed media, bronzi) o alle pratiche (es. installazione, performance), non sono però oggetti qualsiasi, sono opere d’arte, ma cosa fa di un’oggetto un’opera d’arte?
La nozione che nella modernità sembra aver avuto più successo nel determinare l’artisticità di un oggetto del mondo, è quella di “aura” (Benjamin, W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica) proposta da Benjamin che la collega all’idea di autenticità e alla nozione di hic et nunc, lamentandone la perdita nella pratica riproduttiva industriale delle immagini che prende slancio in occidente all’inizio del XX secolo. Secondo Nicolas Burriaud, la proprietà che determina l’artisticità di un oggetto nella modernità è data da una sorta di storicismo in cui è intrinsecamente immersa la produzione artistica, per cui gli artisti producono “oggetti informati da altri oggetti”, ovvero quel tratto tipicamente citazionista della condizione postmoderna intercettato da Lyotard, pur se già Ugo Foscolo nell’epistolario pubblicato postumo scrive: “L’arte non consiste nel rappresentare cose nuove, bensì nel rappresentare con novità”. Secondo Arthur Danto l’artisticità è data dall’aboutness (intraducibile, sarebbe l’approposità) di un oggetto, per il filosofo americano non sono le proprietà estetiche che trasformano l’oggetto in opera d’arte ma le proprietà relazionali, ovvero la sua posizione nella trama, nel sistema dell’arte, nell’Artworld (Danto A., Artworld, 1964), e in primis nella storia dell’arte.
In qualche modo sia Foscolo, che Benjamin, che Danto, che Burriaud suggeriscono che una determinata proprietà immateriale di un oggetto, determini l’ingresso o meno di questo oggetto nel recinto (sacro) dell’arte, Burriaud suggerisce che l’oggetto che ambisce a essere arte non è sufficiente a se stesso, esso deve prendere posizione in un quadro storico e ne deve indicare il referente, anche Danto ritiene che l’arte sia sostanzialmente la storia dell’arte, Foscolo lo dichiara apertamente mentre Benjamin scrive: “l’autenticità di un cosa è la quintessenza di tutto ciò che di esso […] può venir tramandato, dalla sua durata materiale, alla sua testimonianza storica”. Questa riflessione di Benjamin oltretutto, sembrerebbe condannare a morte l’idea che il writing si possa vendere in foto, di nuovo mettendo al centro della riflessione la performatività di questa arte e non il suo nucleo semantico. Come se praticare il writing fosse un atto performativo e non una costruzione artistica complessa, dall’esito materico, pulsante di vita, “autentica”, produttrice di una estetica esperibile, di cui la riproduzione potrebbe offrire solo, appunto, la riproduzione. Pur presentandosi in forme, prospettive e approcci diversi, queste idee assumono tutte l’orizzonte storico come destino per l’opera d’arte nelle varianti che muovono dalla costruzione hegeliana a quella marxiana alla francofortese. L’opera d’arte nella modernità sembra quindi essere un oggetto storico – mettendo in luce forse un paradosso – e questo statuto appare ancora più evidente quando si parla di processi di storicizzazione che operano le istituzioni culturali sugli artisti e le opere, e dalla schiacciante maggioranza degli storici dell’arte nella popolazione che tratta l’argomento. Da queste prospettive è possibile affermare che nella modernità l’opera d’arte appare storica e materiale e forse non è un caso che il sostrato di sviluppo di queste idee (a parte Foscolo) sia, per l’appunto, il materialismo storico.
È questo dunque a determinare il valore di un’opera d’arte? Il suo intrinseco materialismo rappresentazionale inquadrato (effettivamente o potenzialmente) nella storia? A questa domanda il dibattito culturale contemporaneo offre risposte complesse, parziali, muove da molte diverse prospettive ma soprattutto deve vedersela con l’idea di “fine della storia” introdotta da Francis Fukuyama e con la smaterializzazione di interi segmenti della tradizione. Certo è che processi di fine della storia e smateriailzzazione degli oggetti non sembrano essere l’ambiente migliore per la sopravvivenza di un’arte materiale e storica. Groys sottolinea lo statuto plurale della modernità dell’arte, una condizione che “impedisce di descrivere qualsiasi opera d’arte come esempio generale di arte” (Groys, B., Art Power, 2012, Milano, Postmedia) e argomenta che “l’asserzione per cui l’arte moderna sfugge ogni generalizzazione è l’unica generalizzazione ancora concessa”. Il teorico tedesco ne conclude che la futilità e frustrazione che questo pluralismo induce in ogni discorso sull’arte è sufficiente a mettere in discussione il dogma stesso del pluralismo. Perniola cerca di indagare l’artisticità nel moderno proponendo un’arte “espansa” (Perniola, M. L’arte espansa, 2015, Torino, Einaudi), intuizione tanto felice, quanto infelice e sovrastrutturata appare l’analisi del filosofo italiano sulla sua stessa intuizione. Perniola sostiene che è in corso un processo di inclusione nel perimetro dell’arte di pratiche marginali distinguendo i processi di inclusione in artisticità, artificazione e artistizzazione che descrive così: “Un decentramento dell’azione dal singolo a un sistema di relazioni molto complesso, all’interno del quale qualcosa o qualcuno […] che è marginale, addirittura estraneo al mondo dell’arte viene ammesso a farne parte“.
Costruzioni complesse e parziali che non sembrano suggerire soluzioni, non riescono a vedere oltre il tratto di “sacralità” che ancora avvolge l’opera d’arte, non riescono a ribaltare la prospettiva attestando il ragionamento ancora intorno a al principio contemplativo di fruizione dell’opera d’arte. Infine non prendono in considerazione in alcun modo la questione estetica, anche solo come regime del visibile, come suggerisce Rancière (Rancière, J., Le partage du sensible, 2000, Parigi, La Fabrique édition) o come “legame esistente tra la preoccupazione del presente, la vita quotidiana e l’immagnario” nella prospettiva di Michel Maffesoli (Maffesoli, M., La contemplation du monde, 1993, Parigi, Èdition Grasset & Fasquelle )
È questo dunque che genera il valore dell’opera d’arte? Adesione alle teorie, orizzonte storico, aura, proprietà relazionali, artisticità, artificazione e artistizzazione? E’ una convenzione sociale che il valore di questi oggetti non sia il mero valore del materiale di cui l’oggetto è costituito, ma la somma di questo e del valore di qualcos’altro di cui l’oggetto è portatore. Ad esempio, un tela con telaio 100x150cm di buona qualità può costare 150-200€, una volta dipinta da un giovane pittore alle prime mostre può venire offerta e acquistata a 3000€. Da cosa é giustificato questo incremento di valore del 1400%? Dall’”altro” che contiene e a cui rimanda? Dall’aura? Dall’aboutness? Il valore sembra determinato solo ed esclusivamente dal desiderio di possedere quell’oggetto capace di dire cose al mondo. Ma il valore dell’opera è anche il suo prezzo? Parrebbe di si, poiché l’amoroso intreccio tra arte e mercato dell’arte, sembra produrre un’equazione stabile: il prezzo e il valore sono la stessa cosa, una semplice dimostrazione di questa tesi consiste nel fatto che nessuno di voi è in grado di trovare un’opera d’arte che vale tanto (denaro) e costa poco (denaro). Pur se Nicolas Burriaud sostiene che l’arte contemporanea “non ha altra funzione oltre all’esporsi al commercio” (Burriaud N., Estetica relazionale, ed. Postmedia, 2010, p. 17), appare evidente l’esistenza di una produzione artistica “organica” all’Artworld che sicuramente ha come sovrascopo quello di esporsi al mercato, tuttavia appare altrettanto evidente l’esistenza di una produzione artistica in grado di costituire lo sfondo da cui emergeranno nuovi prodotti storici dell’arte – e quindi commerciabili – che emergono in una semiosfera (Lotman J., La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, Venezia, Marsilio, 1985) insensibile al mercato, in uno sfondo di non-cultura dove tutto è possibile, quello che Claire Bishop definisce lo ”spazio di antagonismo o di rifiuto rispetto alla società in cui l’artista colloca quelle tensioni che l’ideologia della creatività riduce poi ad un contesto omologato” (Bishop, C., Inferni artificiali, la politica della spettatorialità nell’arte partecipativa, Luca Sossella Editore, 2015, p. 28). Tuttavia, la produzione di opere d’arte è intrinsecamente destinata ad una dimensione pubblica e, che l’artista lo voglia o meno, assai facilmente entra nel mercato.
Il mercato dell’arte si mette in scena nella galleria e nelle fiere, dove l’arte si scambia, ma sempre di più anche nei musei e istituzioni, è il mercato che si autorappresenta (e autopercepisce) come entità totalizzante che non tiene conto della svolta etica delle nuove generazioni di artisti così come la argomenta Peter Dews: ”questioni di coscienza, impegno, rispetto e giustizia che fino a non molto tempo fa sarebbero state archiviate come residui di un umanitarismo sorpassato, sono tornate ad occupare, se non il centro della scena, uno spazio a esso molto prossimo” (Dews, P., Uncategorised imperatives: Adorno, Badiou and the Ethical turn, in “Radical philosophy” gin-feb 2002, 111, p. 33) e che, occupando le zone di instabilità sociale e istituzionale, provano a costringere il mercato a ripensare le meccaniche del valore. Sarebbe interessane disporre di una categoria di artisti come Blu, figure che operano al di fuori del mercato dell’arte, ma che nonostante la loro volontà, appaiono, come suggerisce Ulrich Beck una “soluzione biografica a contraddizioni sistemiche” (Beck, U., Risk Society: towards a new modernity, men, Polity press, Cambridge, 2001, p. 106). Le opere d’arte prodotte da Blu ci appaiono evidentemente non commerciabili, muri, facciate di edifici, edifici interi, inoltre storici dell’arte come Fabiola Naldi sostengono che si tratta di arte transitoria che “deve essere distrutta” (http://www.ilrestodelcarlino.it/…/murales-blu-esperta-naldi…). In assenza di opere d’arte disponibili sul mercato, il desiderio sarebbe in grado di aprire nuove frontiere? Il desiderio di possedere un’opera di Blu ad esempio, potrebbe determinare un’escalation dell’Artworld? Gli stacchi operati in occasione della mostra Street Art – Banksy & co a Bologna (2016) forse rappresentano una testimonianza di questa escalation, con specifiche conseguenze inoltre, a causa di questo fatto, l’artista ha cancellato tutte le sue opere pubbliche nella città di Bologna. Ma questa escalation potrebbe alzare il livello di scontro? C’é qualcuno disposto ad acquistare un edificio solo perché dipinto da Blu? In fondo anche prima del 1793 nessuno credeva si potesse tagliare la testa a un re. Nel frattempo queste giovani generazioni di artisti non sembrano aver influito sul mercato e le sue dinamiche, non sembrano aver rivoluzionato niente e non sembrano nemmeno cercati dal mercato che è rimasto nella sua forma tradizionale. A questo scopo é utile sapere che il mercato dell’arte può apparire un luogo bizzarro, dove ad esempio una una tela 50x70cm di Banksy costa 350k€ e con 20K€ é possibile acquistare una tela di pari dimensioni di Francesco Albani, sontuoso pittore barocco che ha affrescato Palazzo Farnese, ha dipinto con Annibale Carracci ed era a bottega con Guido Reni e il Domenichino. Ma in definitiva chi stabilisce il valore di un opera nel mercato? Semplice, il valore di un’opera è quanto un soggetto è disposto a pagare per averla. E fuori dal mercato? Potrebbe essere la quantità di resistenza che una comunità o un singolo applica per non separarsene.
Questo ci suggerisce due cose, la prima è che potremmo provare a trovare il modo di riconoscere e misurare tanto il valore materiale che immateriale che, proprio per questo, va reificato e ascritto a bilancio, la seconda è che se alcune opere possono valere del denaro, altre possono valere una rivolta, come spero accada nell’ipotesi che qualcuno un giorno voglia cancellare le opere di Tor Marancia a Roma, o possa valere niente come il dipinto di Blu sulla facciata dell’ex centro sociale Alexis in via Ostiense a Roma, ché se qualcosa valesse, qualcuno dell’esercito di dirigenti e lavoratori dei beni culturali avrebbe già fatto qualcosa per impedirgli di cadere a pezzi. Una tale iniziativa permetterebbe di comprendere alcune distinzioni fondamentali tra arte e mercato dell’arte.