PARMA – Sono tanti e anche molto noti gli artisti che nel corso della loro carriera si sono confrontati con il mito di Prometeo – da Rubens a Mattia Preti, fino alla versione déco in bronzo dorato di Paul Manship, simbolo del Rockefeller Center di New York. L’opera più celebre è però quella del pittore simbolista Arnold Böcklin.
Il grande Prometheus di Böcklin del 1882, opera somma della Collezione Barilla di Arte Moderna, viene eccezionalmente esposto al pubblico fino al 9 maggio alla Fondazione Magnani-Rocca, nella mostra “De Chirico e Savinio. Una mitologia moderna”.
Qui trova per la prima volta dialogo con le due versioni del Prometeo di Giorgio de Chirico e del fratello Alberto Savinio, di cui il Prometheus di Böcklin rappresenta l’imprescindibile modello. L’esposizione del Prometheus fornisce dunque una rara occasione di lettura e di confronto delle fonti artistiche, ma anche filosofiche, alla base dell’arte dei Dioscuri dell’arte.
Prometheus fu realizzato da Böcklin a Firenze, dove l’artista visse a lungo. La città viene citata nella montagna raffigurata nel quadro, che riprende il profilo del Monte Morello. La tela colpisce al primo sguardo per il cupo paesaggio di tempesta e solo dopo un’attenta osservazione si riconosce la gigantesca sagoma del corpo del Titano, incatenato alla montagna e soggetto alla furia del cielo. Il protagonista della scena non è più l’eroe ribelle, ma la drammatica lotta dell’uomo contro le forze misteriose e oscure sprigionate dalla natura, demonicamente animata. La figura di Prometeo comunica così un senso di eroica impotenza e rassegnazione.
Böcklin, uomo dallo spirito nordico, è affascinato dalla Grecia e dalla classicità ellenistica. Rimane tuttavia fedele alla sua natura nordica per la profonda malinconia e per la modernizzazione del mito. Questa sua duplicità si palesa anche nel Prometheus. Lo spirito nordico viene chiaramente evocato dal paesaggio di grande bellezza, drammaticità e coinvolgimento; non una veduta, ma una terra che attira e, nello stesso momento, impaurisce, richiama a sé, con un potere di attrazione prodotto da qualcosa al di là della bellezza. Il martirio di Prometeo sembra quasi nascosto, secondario, eppure crea il mistero del paesaggio e ne acuisce il dramma.
Giorgio de Chirico fu grande ammiratore di Böcklin e trasse ispirazione da quest’opera per il suo Prometeo del 1909. De Chirico stesso nel suo saggio su Böcklin del 1920 ricorda quest’opera: “Nel suo Prometeo interpretò meravigliosamente quell’aspetto della divinità gigante scesa ad abitare la terra, aspetto di cui la prima idea gli venne forse vedendo il quadro di Poussin intitolato Paesaggio siciliano, che trovasi ora al museo di Pietroburgo, e ove si vede in fondo, dietro una valle abitata da ninfe, sopra una roccia alta, il dorso gigantesco di Polifemo che suona la zampogna”.
Anche per Alberto Savinio, Böcklin rappresenta un modello primario. Nel suo Prometeo del 1929, Savinio propone tuttavia una visione diversa da quelle di Böcklin e de Chirico, operando una trasformazione ironica dell’impacciato nudo fotografico ottocentesco che gli era servito come modello, in una figura di dimensione mitica, benché quasi acefala.
Il Prometeo di Savinio volge malinconicamente la minuta testa ovoidale al cielo dove spicca, come l’epifania di un sogno irrealizzato, la fiaccola prima donata e poi negata agli uomini coi colori e le forme dei giochi agognati nell’infanzia. Alter ego dell’artista solitario, sacerdote e mago: un veggente.