In primo luogo compie un gesto pubblico che rivendica attraverso il suo account Instagram – lo stesso schema procedurale di un attentato – in secondo luogo si ispira ad un lavoro dell’artista francese Farewell, “Bande de pub” realizzato nel 2013 a Parigi (https://vimeo.com/92609964). In questo articolo cercherò di accennare ad alcune possibili prospettive di analisi di questo gesto e delle sue conseguenze nella sfera pubblica. Sulla relazione con Farewell c’è poco da commentare, basta guardare il video. Non tratterò il fatto che l’azione di Banksy sia copiata a quella di Farewell poiché non ha alcuna rilevanza in nessuno dei piani possibili, è tuttavia sorprendentemente materiale da gossip intensivo per buona parte della comunità artistica.
Prima di procedere, credo sia necessario fornire al lettore un paio di indicazioni sull’artista britannico prelevate direttamente dal suo pensiero.
Nel libro Wall and Piece (2005) Banksy scrive: se vuoi dire qualcosa e vuoi che la gente ti ascolti, allora indossa una maschera. Se vuoi dire la verità, allora devi mentire. In altre parole, in tempi non sospetti, questo giovane writer di Bristol scrive a chiare lettere nel suo quarto libro: non saprete mai chi sono e ogni verità che dirò sarà mascherata da bugia.
Questi due concetti ci offrono allo stesso tempo un orizzonte entro il quale comprendere il lavoro dell’artista e un manifesto operativo.
Di seguito mi riferirò a questi due aforismi come il primo principio di Banksy e il secondo principio di Banksy.
Il primo principio di Banksy stabilisce che egli ha qualcosa da dire, il secondo che quello che ha da dire è una verità. Avere qualcosa da dire è il mandato artistico per definizione, che si tratti di verità non è affatto scontato. Lo statuto veritativo dell’arte è un postulato dell’idealismo hegeliano per il quale arte, filosofia e religione non sono altro che tre diverse forme per cogliere l’assoluto, tre esperienze di verità. Secondo il filosofo tedesco, infatti, la religione ci offre la verità come rappresentazione, la filosofia come forma suprema del concetto e l’arte come forma del sensibile. Attraverso questa prospettiva possiamo dunque sostenere che la triturazione della Girl with balloon da un milione di sterline è una verità che Banksy somministra ai nostri sensi, affinché noi possiamo percepirla. Ora, non ci resta che comprendere di quale verità si tratti. Tuttavia, il secondo principio di Banksy ci suggerisce che l’artista presenta le verità sotto forma di menzogna. E qui la cosa si ingarbuglia. L’intero lavoro dell’artista sembra esplorare le possibili relazioni tra arte e verità, soprattutto quelle più contorte, le meno lineari. In effetti i due principi che l’artista mette in capo al suo intero lavoro coincidano con due figure retoriche: il paradosso e la contraddizione che sono anche le due condizioni che meglio rappresentano il nostro presente. Paradosso e contraddizione sembrano essere le due parole chiave per interpretare sia il nostro tempo che il lavoro di questo artista. Qualora fosse così, solo gli artisti più grandi riescono in questa sincronia, attivando con la loro opera processi individuali di reincantamento del mondo, tra questi, solo pochissimi innescano processi di reincantamento collettivo.
Conosciamo l’esistenza di questo artista solo attraverso le sue comunicazioni, non abbiamo mai avuto esperienza del suo corpo. Nonostante da circa venti anni Banksy sia solo una comunicazione unidirezionale, non smettiamo di attribuirgli un’antropomorfia, di farlo uomo. Ci sorprende che qualcuno tra noi non passi all’incasso di tanta popolarità, non la mostri, non la esibisca, non ne faccia spettacolo. E, chiaramente, diamo per scontato che sia una persona, questo è dovuto al fatto che il suo linguaggio è appropriato, proprietà che, secondo Noam Chomsky (1988), differenzia qualitativamente gli umani dagli animali. Sembra che a noi il linguaggio di Banksy piaccia molto, non si tratta di un linguaggio verbale o multimodale, come quello che usiamo tutti noi per comunicare, ma di un altro tipo di linguaggio e, qualsiasi cosa dica con questo linguaggio, la platea di chi lo ascolta appare sempre più grande. Proviamo ad analizzare il messaggio della Girl with balloon triturata che sembra essere un discorso sul senso dell’arte nel nostro tempo. Proviamo a capire com’è fatto il linguaggio di Banksy.
Partiamo dall’assunto che un linguaggio è tale solo se possiede una grammatica, una sintassi e una semantica. La tela metà dentro metà fuori la cornice, con la parte fuoriuscita fatta a striscioline, è probabilmente destinata a cristallizzarsi nella memoria collettiva e ad entrare nella storia e nel costume dalla porta principale. Questa immagine sembra essere la grammatica del linguaggio che Banksy utilizza in questo discorso sul senso dell’arte oggi, ovvero l’insieme delle convenzioni che stabilizzano l’idea diffusa e condivisa dell’arte qui e ora. C’é da dire che non si tratta di un vero, grande discorso contemporaneo sul senso dell’arte, sia chiaro, solo un discorsetto di buon senso per chi ama le cose belle, un po’ come l’anarchia entry-level di Dismaland. Banksy sembra parlarci in modo pragmatico, probabilmente ci legge nello stesso modo.
La sintassi sembrerebbe costituita dal video, è quello l’oggetto informato che costituisce propriamente l’opera in questione. Il video è in effetti la struttura che ordina le immagini nella sequenza corretta per permetterci di percepirne il significato, di accedere al livello semantico, al senso.
A questo livello cerchiamo di applicare la nostra chiave di lettura e proviamo a capire se questo lavoro produce le due figure retoriche del paradosso e della contraddizione. L’opera è stata distrutta e ora vale più di prima sembra essere il paradosso prodotto e ciò che appare come una contestazione dello stato mercantile dell’arte, produce aumento del valore commerciale dell’intera produzione dell’artista sembra essere la contraddizione. L’opera quindi sembra essere consonante con la produzione di senso della chiave di lettura individuata.
L’arte di Banksy sembra interessarsi all’aspetto più ordinario, banale e quotidiano della vita. Quell’esperienza inscritta nell’eterno presente dell’esistenza comune contemporanea, che sperimenta paradossi e contraddizioni ovunque intorno a sé, e si trova ad assistere impotente alla dittatura del percepito sul reale, dell’industriale sull’artigianale e a tutto quanto sia paradossale e contraddittorio da quando suona la sveglia a quando ti addormenti sul divano.
Sì, ma a qualcuno Banksy potrebbe sembrare solo un gran furbo che mette lì paradossi e contraddizioni per disorientare e nascondere secondi, terzi e quarti fini di ordine commerciale, insomma Banksy ha capito come funzionano le cose e le sfrutta a suo personale tornaconto, altro che contestazione della mercificazione dell’arte, l’artista britannico ci marcia alla grande. Qual è allora questa verità che ci vuole comunicare? È così che dobbiamo leggere questa messa in scena? Si tratta solo di marketing? Iniziamo dall’ultima questione, sicuramente l’artista utilizza strategie di comunicazione degne dei grandi brand e questo non deve sorprendere, il marketing deve molto ai graffiti. In effetti, da oltre vent’anni la maggioranza dei grafici, creativi e operatori della pubblicità sono ex writer che dall’esperienza della pratica dei graffiti, ovvero dall’etica e l’estetica del vandalismo, hanno prelevato e rielaborato alcune tra le più efficaci e innovative tecniche di marketing, basti pensare alle tecniche di guerrilla marketing usate dai global brand, teorizzate da Levinson (1984) osservando le pratiche messe in atto dalla street art newyorkese degli anni ’80. È il marketing, quindi, che mutua il vandalismo e non il contrario, e il lavoro di Banksy sembra marketing solo perché siamo più sottoposti alla pubblicità che all’arte, in realtà si tratta di un artista che sta portando l’etica e l’estetica del vandalismo in una direzione completamente nuova. La risposta a questa domanda quindi, a mio avviso, é che non si tratta di marketing ma di vandalismo e che marketing e vandalismo sono, in fondo, la stessa cosa.
Come dobbiamo leggere la messa in scena? In effetti, la messa in scena è l’opera vera e propria ed è costituita, come già detto, dal video e dalla sua potenzialità virale, ovvero di diffusione capillare, offerta dalle tecnologie digitali del tempo reale. La messa in scena pubblica è anche all’origine della contemporaneità dell’arte, è Marcel Duchamp (1915) ad utilizzare la messa in scena pubblica come procedura esecutiva dell’opera presentando così i suoi ready made, la cui strategia d’indirizzo è di rappresentare linearmente ciò che è rappresentato, ovvero, così come il pisciatoio è solo un pisciatoio, la ruota di bicicletta é solo una ruota di bicicletta, la burla di Banksy è solo una burla, uno scherzo o, più genericamente, un gioco. In questa prospettiva forse abbiamo assistito all’aggiornamento storico della nozione duchampiana di ready made già frequentata da Banksy, come il pensiero situazionista di cui l’opera è altrettanto portatrice. In effetti, il ready made duchampiano esprime bene una certa stabilità dello stato delle cose in generale, e degli oggetti in particolare e, in un certo senso, è figlia del materialismo storico, tuttavia mal si adatta alla transitorietà degli stati delle cose e degli oggetti a cui ci costringe l’instabilità e la progressiva smaterializzazione degli oggetti nel nostro tempo che potremmo chiamare per antitesi: immaterialismo storico. La risposta su cosa rappresenti la messa in scena quindi è: rappresenta un gioco presentato, più che nel formato del ready made duchampiano, in una sorta di ready masking banksyano. L’arte è un gioco? Sì, lo é.
Nel rivelare l’opera attraverso un breve video (2018) in cui l’artista illustra la tecnica per ottenere la triturazione della tela e ne narra la storia come fosse una favola (dieci anni fa…), l’artista la accompagna ad un citazione prelevata da Picasso: “anche l’urgenza di distruggere è un’urgenza creativa”. Cosa vuol dire? Perché Banksy ci parla di distruzione? Infine, è veramente distruzione?
Arte e distruzione si sono incontrati da tempo, basti pensare ai tagli di Fontana, alle combustioni di Burri, al lavoro di John Reed. Di distruzione creatrice si sono occupati Caws e Deville nel loro saggio undoing art del 2017. I due fanno notare che la distruzione dell’opera d’arte (undoing) costituirebbe una parte del processo di costruzione dell’artista, in altre parole, l’artista nel distruggere l’opera, in realtà, costruisce se stesso. In effetti, questa analisi trova conferma nella contraddizione riscontrata poco prima in questo articolo: Banksy distruggendo l’opera ottiene due effetti: il primo è la diffusione capillare della sua opera (il video), il secondo che tutte le sue opere ora valgono di più. Sembra proprio che, come sostengono Caws e Deville, l’artista abbia dato un ulteriore contributo alla costruzione di se stesso. L’aspetto performativo di un atto di distruzione ha inoltre un lato spettacolare in grado di richiamare la nostra attenzione con molta più pervasività di un atto di costruzione, la distruzione creatrice afferma un’arte secolarizzata, ovvero desacralizzata, quando Bailey Bob Bailey propone la distruzione del rituale dell’albero di Natale (Caws e Deville, 2017) sta mettendo in scena la paganizzazione di un rito sacro oramai assorbito nella civiltà dei consumi, stessa cosa fa Banksy. La distruzione creatrice è un paradigma usato perlopiù dal potere moderno che na ha intercettato il potenziale economico e politico all’interno della società dello spettacolo (Debord, 1967), basti pensare alle guerre per stabilizzare regioni del mondo e ai processi di ricostruzione e gestione. Tuttavia, la relazione tra arte e distruzione ha sempre restituito un’estetica dell’entropia, del caos, dell’irripetibilità. La distruzione dell’opera d’arte è stata finora un atto generatore di entropia naturale, essenzialmente riduzione di materiali in pezzi o trasformazione unidirezionale degli stessi. Un processo in grado di produrre un’estetica del relitto, della rottura scomposta che si adatta alla perfezione alle ricerche informali del proprio tempo. Con questo lavoro Banksy si spinge oltre il paradigma di distruzione conosciuto, la distruzione di Banksy è operata attraverso un oggetto-paradigma del principio razionale e industrializzato di distruzione: il tritadocumenti. L’oggetto a cui il mondo amministrato affida i suoi segreti quando è troppo tardi per nasconderli. L’estetica ne risente in maniera rivoluzionaria, il risultato visivo di questa distruzione non è affatto un caos informe di materiali ma al contrario, una distruzione ordinata, industrializzata, composta, razionale e logica, totalmente deprivata del potere di trasformazione del materiale che, infatti, lascia intatta la capacità percettiva dell’opera. L’opera in questione non è quindi il risultato della distruzione di un’opera ma di un suo refit , di una sua riconfigurazione secondo un preciso canone estetico offerto da una tecnologia da ufficio.
Non ci rimane che l’ultima questione, qual è la verità che ci sta comunicando l’artista? La verità è che, come scrive Carlo McCormick (2015), la società, in quanto condizione collettiva che mira all’ordine nel disperato tentativo di scongiurare l’entropia, è un insieme di confini. Anche se ci si aspetta che l’artista segua le regole generali come tutti gli altri, gli si accorda però tacitamente la licenza di spostare, sfidare – se necessario – violare questi innumerevoli confini. Qualcuno lo deve fare, e sebbene sia prevedibile che lo facciano criminali, pazzi e bambini, tutto sommato preferiamo che a farlo sia un artista. Allora, il modo migliore per conoscere un limite è trovare qualcuno che prema per infrangerlo.
Stefano Antonelli, 1966. È un curatore d’arte e ricercatore interessato alle relazioni tra arte e ordinario. Fondatore e direttore artistico di 999Foundation, é stato tra i pionieri in Italia delle pratiche curatoriali urbane. Ha curato la realizzazione di opere pubbliche di alcuni tra più importanti artisti italiani e internazionali. E’ ideatore e curatore di progetti di progetti come il M.A.G.R., Museo Abusivo Gestito dai Rom, il Museo Diffuso di Ostiense, il Museo Condominiale di Tor Marancia che ha rappresentato l’Italia presso la Biennale di Venezia, 15° Mostra di Architettura. E’ curatore di mostre galleristiche e museali tra cui Urban Legends, i giorni della street art presso il Macro, Museo d’Arte contemporanea di Roma, Codici Sorgenti, Visioni Urbane contemporanee presso il Museo Platamone di Catania e Banksy, Guerra Capitalismo e Libertà presso la Fondazione Roma. Consulente culturale di amministrazioni pubbliche e imprese, è attivo nella diffusione e divulgazione culturale attraverso pubblicazioni, conferenze, seminari, laboratori e docenze presso istituzioni e università tra cui Luiss Guido Carli, La Sapienza, IULM, Roma Tre, Macro e PAC di Milano. E’ è inoltre autore di saggi critici e cataloghi d’arte, oltre ad essere regista, autore, scrittore e drammaturgo.