VENEZIA – Definire l’arte di David Jacobson non è semplice e ogni classificazione risulterebbe riduttiva e impropria al tempo stesso, essendo ogni sua opera l’esito di un susseguirsi di suggestioni ed esperienze, non solo artistiche, ma anche di vita vissuta. Vibranti echi primitivi si fondono così alla rilettura di modalità espressive proprie dell’arte contemporanea, in un continuo rimando al sempiterno legame con la natura. Unica costante è la capacità di interpretazione delle possibilità trasformative ed espressive della materia. La ricerca estetica di Jacobson, infatti, – come sottolinea il critico Pier Paolo Dinelli – “prende le mosse da materiali primitivi quali pietra, legno, quelli che hanno accompagnato da sempre la storia e il cammino evolutivo della nostra specie e che le hanno trasmesso il senso di appartenenza a una realtà composita, unita alla consapevolezza di poter modellare questa stessa realtà, imprimendo segni e lasciando tracce, come testimonianze della nostra esistenza”.
Originario della Namibia, dove è nato nel 1951, David Jacobson, che attualmente vive e lavora tra l’Italia e Londra, ha viaggiato in lungo e in largo, cogliendo influenze di ogni tipo e di differenti culture, che lo hanno però spinto a elaborare una cifra stilistica molto personale, in cui la componente umana e istintiva rimane una delle chiavi di lettura del suo intero lavoro creativo. La sua biografia diventa, dunque, parte imprescindibile e integrante della sua ricerca artistica.
“Non sono un uomo di scienza né di religione, sono solo uno scultore” – Spiega Jacobson. – Un’affermazione dalla quale partiamo per cercare di comprendere il suo modo di “leggere” il mondo e di restituirlo in maniera significativa.
“La scultura è parte stessa del mio sangue, mia madre era una scultrice”. L’approccio alla scultura per Jacobson avviene in maniera del tutto naturale e immediata, attraverso il gioco, la manipolazione della creta e, solo in un secondo momento, si profila come un’attività più strutturata. “Come un seme resistente e pervasivo” l’arte finisce per crescere e contaminare l’intera esistenza di Jacobson. Tuttavia, prima di addentrarsi in maniera definitiva in questo mondo, Jacobson racconta di aver svolto diverse attività, “sono stato allevatore di polli, pescatore, reporter, poi sono andato a Londra nel 1972 e sono riuscito a entrare alla Camberwell School of Art and Crafts”. “Ero ignorante – spiega ancora – d’altra parte venivo dalla Namibia dove la conoscenza dell’arte moderna e contemporanea, o comunque l’idea di un’arte più concettuale era davvero molto limitata. Per cui quando sono arrivato a Londra è cominciata per me una nuova vita, soprattutto a livello culturale. Inizialmente sono rimasto influenzato da artisti come Donald Judd o Richard Serra”.
Fondamentale anche l’incontro fortuito con Christo. “Con la mia cinepresa Hanimex Super 8 stavo camminando lungo le scogliere di Little Bay, quando un uomo dall’aspetto infuriato è apparso correndo verso di me agitando le braccia, evidentemente segnalandomi di smettere di girare. Si trattava di Christo, e la scena che stavo riprendendo era quella di Christo e Jeanne-Claude che ricoprivano novantatre mila metri quadri di costa e scogliera con stoffa e corda. Conservo ancora quei 15 secondi di filmato. Questo mio primo contatto con la landscape art è stato una vera rivelazione”.
“Nel 1981 – racconta poi lo scultore – mi sono trasferito in Italia per imparare a tagliare la pietra e mi sono imbattuto nel laboratorio Henraux a Querceta, vicino a Pietrasanta, dove gli artigiani che mi insegnavano a lavorare la pietra avevano realizzato lavori anche per Henry Moore, Isamu Noguchi, Marino Marini e altri famosi artisti, alcuni dei quali ho avuto la fortuna di incontrare”.
Ad oggi Jacobson continua a lavorare in quello che fu lo studio dello scultore giapponese Isamu Noguchi, uno dei suoi maggiori riferimenti artistici.
Il lavoro della pietra per David rappresenta una sorta di ritorno alle origini, alla sua Namibia. Il Namib è il deserto più antico del mondo, una terra vasta, selvaggia e arida, ma costellata di gioielli nascosti tra cui petroglifi e pittogrammi. “L’uso della pietra è molto importante e profondo nella cultura namibiana, ma non solo, basti pensare che tante immagini incise o scolpite sulla pietra sono comuni o similari nelle varie parti del mondo, dall’Egitto alla Thailandia al Messico”.
Attraverso forme massicce e concrete, reinterpretando quindi un immaginario primitivo, ma anche le linee estetiche dell’Arte Povera italiana, altro importante punto di riferimento, l’artista riesce a tradurre il rapporto tra energia e materia. Jacobson esplora, genera e plasma la materia grezza, quasi in maniera “artigianale”, attuando una trasformazione e un passaggio da uno stato indeterminato a una rappresentazione evocativa in grado di innescare profonde riflessioni, spesso anche in maniera ironica.
La mostra a Venezia
Le opere di David Jacobson saranno esposte nella mostra “Time Space Existence”, ai Giardini della Marinaressa a Venezia, nel contesto della Biennale di Architettura, a partire dal 22 maggio 2021. Si tratta di una collettiva organizzata da European Cultural Centre (ECC Italy), che vede coinvolti diversi artisti internazionali.
La rassegna rappresenta un’occasione per comprendere il senso del lavoro di Jacobson, in quanto le opere in mostra restituiscono la “summa” del suo vocabolario poetico, tra lavori storici e installazioni site specific, evidenziando alcune delle istanze e degli interessi che da sempre fanno parte dell’immaginario dello scultore.
Footprints / Social Distancing è una coppia di opere, la prima realizzata nel 1982, l’altra ri-attualizzata appositamente per l’esposizione veneziana. “Le impronte hanno sempre suscitato il mio interesse, come rappresentazione della gravità e della presenza dell’umanità su questa Terra. In particolare mi rammentano le impronte di piedi che vedevo nel deserto della Namibia per alcuni tratti e che poi scomparivano improvvisamente, cancellate dal vento, o le impronte di animali impresse sulla pietra in un’altra vasta zona, sempre della Namibia. Quindi le impronte concepite nel 1982 avevano questo riferimento specifico. Con l’arrivo del Covid19 e il distanziamento sociale, ho reinterpretato questo lavoro e le impronte hanno assunto un diverso significato, andando quindi a evocare, in maniera metaforica, proprio questa mancanza di vicinanza e di contatto tra le persone. Un lavoro, dunque, che si carica di una doppia valenza, materiale e simbolica al tempo stesso”.
Particolarmente interessante è l’opera site specific concepita dall’artista durante il lockdown, dal titolo Earth Plug – Polmone della Terra. Si tratta di un’installazione che, attraverso un compressore, simula il movimento involontario dei polmoni, creando anche un rumore simile a quello del respiro. L’opera ovviamente prende ispirazione dalla pandemia da Covid-19, anzi vuole essere proprio una risposta ad esso, con l’invito a esercitare una maggiore consapevolezza nel rispetto della natura.
Il Covid è “un virus che colpisce principalmente le vie respiratorie, i nostri polmoni. Durante il lockdown – spiega Jacobson – è stato documentato come in così poco tempo, la natura abbia ripreso i suoi spazi e ricominciato a respirare. Ma per quanto tempo questo continuerà dopo la fine del lockdown? Possiamo solo sperare che l’umanità abbia imparato la lezione. Mentre stiamo combattendo contro il virus che sta attaccando i nostri polmoni e bloccando il nostro respiro, dovremmo iniziare a fare lo stesso per i polmoni della nostra Terra” – sottolinea lo scultore. – “Sono riuscito a realizzare questa installazione, che tecnicamente risultava molto problematica, grazie all’aiuto di amici, collaboratori e dell’ECC. Un risultato davvero importante, probabilmente l’opera più significativa della mia vita. E’ veramente un lavoro che ha per tema principale la nostra esistenza e la nostra sopravvivenza su questa Terra”.
Un’altra opera in mostra, che costituisce un’esemplificazione del lavoro di Jacobson, è la scultura Japanese Love Boat, che raffigura una barca, simbolo per eccellenza del viaggio ma anche rappresentazione di un’arca come strumento di salvezza. La barca è però realizzata in pietra, da qui il cortocircuito e il controsenso poiché “una nave di pietra ovviamente non può galleggiare e non sarà mai in grado di sfuggire al diluvio, né salvare i suoi passeggeri”. E qui si evidenzia, dunque, l’altro aspetto fondamentale della creatività dell’artista, ovvero l’ironia. Gli spunti e le riflessioni che Jacobson propone hanno sempre un sapore vagamente ironico, per meglio evidenziare le profonde contraddizioni che rappresentano la nostra epoca, escludendo connotazioni drammatiche o apocalittiche.
Ma, tornando ancora all’importanza che la natura e la sua salvaguardia assume nel percorso artistico di Jacobson, c’è un’altro aspetto sul quale lo scultore invita a riflettere e sul quale lavora da anni: il tema dell’acqua e in particolare l’abuso di questa preziosa risorsa naturale. “Negli ultimi due decenni ho usato l’acqua e la pietra come materiali predominanti. Avendo passato una buona parte della mia esistenza in una terra arida, dove l’assenza di precipitazioni può durare anche anni, mi preme sensibilizzare le persone su questo problema insormontabile”. Da qui la realizzazione di opere come Heavy water, ulteriore invito a proteggere la natura, a cambiare le nostre “cattive abitudini”, a ri-assumere il nostro importante ruolo come custodi del pianeta.
Insomma, un approccio artistico, quello di Jacobson che mescola storia umana e storia naturale, prestando particolare attenzione alle azioni del presente che diventeranno fondamentali per la storia futura.
La mostra veneziana di Jacobson vede così la realizzazione di un perfetto dialogo tra le opere e lo spazio pubblico, evidenziando l’importanza del rapporto fra la comunità e il mondo e, soprattutto, l’influenza dell’arte sulla vita quotidiana. L’arte diviene una sorta di catalizzatore per interrogarsi e magari resettare il nostro senso comune in una visione di un mondo migliore.
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