Borodyanka, cittadina ucraina a meno di sessanta chilometri da Kiev, è stata tra le più duramente colpite durante le prime settimane dell’invasione russa del 2022. Le immagini dei palazzi sventrati, delle facciate annerite dalle esplosioni, delle strade svuotate e ferite hanno fatto il giro del mondo come testimonianza tangibile della brutalità della guerra. Ma proprio tra quelle macerie, nell’apparente silenzio del dopo, sono apparsi dei segni inattesi: una ginnasta in equilibrio tra le crepe di un edificio crollato, un bambino che atterra un gigante, uccelli che sorvolano muri crivellati, ritratti e presenze umane tracciate con lo spray.
Sono le opere di Banksy e C215, due tra le voci più incisive della street art contemporanea, che hanno scelto Borodyanka per lasciare un messaggio di resistenza e memoria tracciato sulle rovine. Ma quei murales, realizzati su superfici già compromesse, minacciati dal tempo e dall’abbandono, rischiavano di sparire. E non c’era tempo da perdere.
È a questo punto che entra in gioco un intervento tanto delicato quanto simbolico: quello di Paola Ciaccia, Alessandro Cini e Maria Colonna, tre restauratori italiani con base a Pavia che, in accordo con le autorità locali, sono partiti per salvare le opere di Banksy e C215. Un gesto di tutela, certo, ma anche di responsabilità civile e culturale, che ha imposto di agire non solo sulla materia, ma anche sul senso profondo di quelle immagini. Perché proteggere un murale, in questo caso, non significa soltanto conservare un’opera, ma prendersi cura di una memoria collettiva ancora viva, ferita, eppure essenziale.
Il lavoro dei tre restauratori è al centro del documentario Arte vs Guerra – Banksy e C215 a Borodyanka, Ucraina, prodotto da 3D Produzioni in collaborazione con Terzo Tempo Film, scritto da Francesca Canto e diretto da Michele Pinto, in onda in prima visione su Sky Arte sabato 26 aprile alle 21.15, in streaming su NOW e disponibile anche on demand.
Li abbiamo intervistati per farci raccontare cosa accade quando ci si trova, con pochi strumenti e molta consapevolezza, di fronte alla materia viva della distruzione; come si lavora in una città dove anche l’aria pesa, e dove ogni intervento si carica di valore umano e simbolico. In questo incontro, tecnica e umanità si intrecciano: perché a Borodyanka, salvare un’opera significa anche riattivare il senso stesso della cura, tendere una mano al futuro e opporsi al silenzio che la guerra prova a imporre.

Qual è stato il vostro primo impatto, umano e professionale, arrivando in una città distrutta dalla guerra? E più in particolare quando vi siete trovati davanti alle opere di Banksy e C215 incastonate tra le macerie di palazzi bombardati?
PAOLA – Un impatto fortissimo che ti lascia letteralmente senza fiato e senza parole. Proveniamo da un contesto in cui la guerra l’abbiamo conosciuta solo attraverso i racconti, cercando di associare a quelle parole delle immagini, delle sensazioni: video, fotografie di repertorio, letture. Oggi, siamo costantemente informati in tempo reale, e le guerre le seguiamo da lontano, con attenzione ed emotività, magari seduti a tavola la sera per la cena. La realtà è che, nella maggior parte dei casi, sentiamo che concretamente non potremmo fare nulla di più. Per quanto mi riguarda, il fatto di aver visto e ascoltato tanto mi ha fatto partire con la convinzione di essere preparata, con la consapevolezza di andare a lavorare in un luogo difficile, pericoloso e di poterlo fare con cognizione di causa. E invece, appena arrivata, quella sicurezza si è sgretolata.
La città distrutta dalla guerra è fatta di macerie che hanno un peso, un odore, un rumore sotto le scarpe, una tensione che avverti ad ogni passo. Apparentemente, ogni cosa scorre “normalmente” e la gente sopravvissuta sembra vivere la propria quotidianità con un sorriso sempre accogliente e sincero. Ma tutto, in realtà, é sospeso e avvolto da un silenzio denso. Le proporzioni concrete di tutto ciò – il peso reale, tangibile – ti schiaccia il cuore.
Le opere erano letteralmente “incastonate” tra le macerie. I volti dipinti da C215 sembravano sopravvissuti tra i muri sventrati, e incrociavano lo sguardo dei passanti come se fossero ancora lì, vivi, a condividere la quotidianità di chi tornava nelle proprie case. Solo dopo abbiamo scoperto che quei volti appartenevano a persone che non ce l’avevano fatta, che erano rimaste vittime del conflitto.
Quando parlo di proporzioni concrete e tangibili, penso precisamente alla sensazione che ho provato vedendo per la prima volta la ginnasta di Banksy. Il contrasto tra la brutalità di quelle tonnellate di cemento distrutto che incombono su di lei e la grazia del suo corpo esile, che non solo resiste, ma emerge con potenza, è agghiacciante. Ti strappa il cuore. La sua ricerca ostinata di equilibrio, di bellezza e di leggerezza nel mezzo della rovina mi è sembrata, in quel momento, un’immagine che parla a tutti noi, in senso profondo.
La professionalità con cui ci siamo avvicinati a queste opere si è nutrita di tutto questo. È stato subito chiaro che saremmo dovuti intervenire con il massimo rispetto, per proteggere una materia fragile, preziosa, profondamente carica di significato per la comunità di Borodyanka. Quelle opere sono veicolo di una testimonianza che dovrà continuare a comunicare tutta la sua potenza.

Cosa ha significato per voi restaurare in un contesto di distruzione? Quali sono state le principali difficoltà tecniche nel mettere in sicurezza le opere? E sulla base di quali criteri avete definito le modalità, considerando il loro doppio valore, artistico e documentale?
MARIA – Sapevamo che avremmo trovato le opere in un contesto diverso dal solito, ma avevamo cercato di pianificare ogni operazione portando con noi tutti i materiali utili, perché ci era chiaro che a Borodyanka, Kiev o in qualsiasi altra città dell’Ucraina non avremmo potuto reperire i prodotti specifici per poter effettuare gli interventi.
Trovarci catapultati in una cittadina completamente distrutta dai bombardamenti, entrare negli appartamenti dove Banksy e C215 avevano realizzato le loro opere, ha reso tutto molto più complesso del previsto. Non c’era acqua corrente per i primi passaggi di pulitura, né elettricità per preparare i materiali. Ci siamo arrangiati con quello che avevamo: fornellini da campeggio, taniche riempite ogni giorno dal signor Valentyn, l’assessore alla Cultura di Borodyanka, che si riforniva a casa sua e si muoveva in bicicletta.
Abbiamo allestito un piccolo laboratorio mobile all’interno di un vecchio bancomat dismesso, annerito dal fumo e segnato dalle bombe. Attorno a noi, tutto era in bianco e nero – come le opere di Banksy, e come i volti dipinti da C215.
I muri in cemento armato su cui erano state realizzate le opere dovevano essere tagliati e spostati, per consentire alle ditte edili di abbattere gli edifici pericolanti. Fortunatamente siamo stati affiancati da un’impresa locale dotata dei mezzi necessari per movimentare quelle strutture pesantissime — parliamo di pareti in cemento spesso 50 o 60 centimetri. Abbiamo trovato persone attente, premurose, profondamente consapevoli del valore di ciò che stavamo salvando. Hanno trattato quei muri dipinti con un rispetto e una cura inaspettata.
Una volta messe in sicurezza, abbiamo seguito le consuete fasi di lavoro: studio dei materiali, pulitura e consolidamento per rendere le opere leggibili e impedire che la pellicola pittorica si deteriorasse ulteriormente. I murales, infatti, erano realizzati su cementi già alterati, resi fragili dal calore dei bombardamenti, e quindi particolarmente instabili.
Ci siamo limitati a queste operazioni essenziali: una pulitura mirata e un consolidamento, sia in profondità che in superficie. Il nostro obiettivo è stato quello di non intervenire oltre: lasciare le opere con le crepe, le lacune, i fori di proiettile che abbiamo trovato. L’idea è stata quella di “congelarle” nel loro stato attuale.
Come siete riusciti a instaurare un dialogo con le autorità locali in una realtà ancora tanto fragile? E qual è stata la reazione della comunità di Borodyanka di fronte al vostro intervento? C’è stato un momento in cui vi siete sentiti davvero accolti?
ALESSANDRO – Il bello di questa storia è che non siamo stati noi a creare un dialogo con la comunità, è stata la comunità a crearlo con noi. È stata la comunità a volere l’incontro, e il caso ha fatto il resto. Sapevano che eravamo restauratori, ma ignoravano che avessimo esperienza specifica nell’ambito dell’arte contemporanea. Io mi trovavo in Ucraina per il restauro della Casa della Cultura di Irpin, un intervento tradizionale su un edificio di inizio Novecento. Ma nel mio percorso, insieme a Maria, c’era anche il restauro di quattro opere di Banksy in Inghilterra. Il caso ha voluto che ci trovassimo, la fortuna ha fatto si che fossi la persona che cercavano al momento giusto nel posto giusto.
Ci siamo sentiti ospiti speciali, nonostante la forte barriera linguistica. La Casa della Cultura di Borodyanka era diventata come una seconda casa per noi: le signore che ogni giorno portavano avanti le attività ci offrivano frutta, caramelle, piccoli e semplici doni. Erano loro a donare a noi, quando in realtà noi avremmo dovuto portare qualcosa a chi aveva perso tutto a causa della guerra. Tutto questo ci ha fatto sentire parte della loro comunità.

Il restauro ha trasformato questi murales da opere effimere in beni da tramandare: come vi confrontate con questa tensione tra conservazione e natura transitoria della street art? Cambia, secondo voi, l’approccio rispetto a un’opera più “classica”?
PAOLA – Questo effettivamente è stato uno degli argomenti di discussione che più spesso è stato sollevato. Penso che parlando di natura transitoria della street art si è portati a pensare a un processo ben preciso che debba concludersi necessariamente col deterioramento dell’opera, o ancora, che l’interazione dell’opera con tutti gli elementi che compongono il contesto “strada”, contenga inevitabilmente il carattere di caducità. Quello che credo è che la parola “transitoria” contenga anche il concetto di trasformazione e mutabilità e che questo risponda assolutamente al concetto di street art. L’opera è inserita in un contesto aperto e mutevole e ne diventa parte aprendo un dialogo, uno scambio con la società in cui vive.
In funzione di questo scambio può accadere poi qualsiasi cosa, il fatto che l’opera possa essere dimenticata, abbandonata, ricoperta o deteriorarsi, oppure che questo dialogo tracci altri percorsi in cui l’opera continua ad esistere, ad esprimersi e a dialogare, rispondendo quindi perfettamente a quel concetto più ampio di street art di cui parlavo. In questo caso è quello che abbiamo vissuto: la comunità di Borodyanka ha riconosciuto il valore e la potenza delle opere di C215 e Banksy, si sono uniti perché queste non diventassero parte delle macerie di cui erano circondati. Da qui si è aperto un nuovo dialogo, un nuovo percorso, in cui le opere continuano, comunque, a rispondere alla loro natura transitoria, ma in senso più ampio e forse più completo.
La comunità ha costruito con quelle immagini un rapporto personale, profondo, unico. Come si può dire che tutto questo tradisca la natura della street art? Credo che proprio in questo caso i concetti di conservazione e transitorietà possano coesistere. Ed è con questo spirito che abbiamo cercato di rispondere a questa necessità della comunità: non per fissare, ma per accompagnare quel dialogo, con discrezione, facendoci parte di un processo già in atto.
Pensate che il restauro, in questo caso, possa essere considerato un gesto politico o sociale? Può diventare una forma di resistenza?
ALESSANDRO – Si, è una delle forme di resistenza più potenti che si possano mettere in atto. In un momento in cui si cerca di annullare un intero paese, negandone l’identità, la cultura, perfino l’esistenza stessa, mantenere vive queste opere significa affermare con forza che quel paese esiste.
Questi murales parlano degli ucraini, della loro storia, della loro forza, e sono stati realizzati da due tra gli artisti contemporanei più riconosciuti a livello internazionale. Preservarli significa preservare un’identità. E non solo: sono opere di straordinaria bellezza. E la bellezza – per citare Peppino Impastato, che è stato ucciso in un’altra guerra, diversa ma altrettanto sanguinosa – è “la più grande arma contro la rassegnazione, la paura, l’omertà”.

Il documentario parla della creazione futura di un museo a Borodyanka. Che ruolo può svolgere l’arte in un processo di ricostruzione collettiva post-bellica?
ALESSANDRO – In uno spezzone del documentario Arte Vs Guerra, Valentyn, assessore alla cultura, dice chiaramente: “queste opere sono qui, e rimarranno qui a testimoniare che questo è avvenuto”.
All’inizio non avevo colto fino in fondo il peso di quelle parole. Poi, poche settimane fa, mi sono imbattuto in una narrazione completamente stravolta di questa guerra: il Presidente degli Stati Uniti, improvvisamente, parlava come se fossero stati gli ucraini a iniziarla. Ognuno è libero di avere la propria opinione sui protagonisti di questo conflitto, ma una cosa non può essere messa in discussione: la verità. E la verità è che a Bucha e a Borodyanka ci sono stati dei massacri, e che è stata la Russia a invadere l’Ucraina e non viceversa.
Valentyn, con la sua lunga esperienza, prima nell’Unione Sovietica e poi in Ucraina, sapeva già prima di noi che tutto questo sarebbe accaduto: che la verità, prima o poi, sarebbe stata negata. E quindi l’arte, il contributo di questi artisti, dimostra che tutto questo è realmente accaduto, ed è una testimonianza preziosa, di valore inestimabile. L’arte diventa parte della storia di una comunità. E, in fondo, lo è sempre stata: quanti ricordano che Guernica è prima di tutto un villaggio spagnolo, oltre che un capolavoro di Picasso? In quel caso, un’opera d’arte si è fusa con un luogo, e quel luogo è diventato il simbolo di una guerra sanguinosa. Il dolore e l’orrore vissuti dai civili hanno trovato forma in un’immagine che ha superato ogni limite di spazio e tempo. C’è qualcosa di più potente e dirompente?
Come immaginate il futuro di queste opere: saranno un simbolo, una testimonianza, o qualcosa di ancora più vivo?
ALESSANDRO – Non possiamo sapere, oggi, quale sarà il destino di queste opere, ma ci batteremo affinché restino a Borodyanka, insieme alla comunità che le ha riconosciute come proprie. Dentro quei muri c’è anche una piccola parte del nostro lavoro, della nostra dedizione. Io immagino – e spero – di poter vedere un giorno un museo, visitato da migliaia di persone venute per Banksy e C215, che osservano quelle opere e, attraverso di esse, conoscano la storia della guerra che si è consumata proprio qui. Un museo in cui si “leggano” le vite dei protagonisti ritratti e uscendo si possa riflettere su ciò che è accaduto: il dolore vissuto e la forza necessaria per ricominciare.
Allo stesso tempo immagino, in modo più concreto, decine di abitanti di Borodyanka che, dopo aver perso tutto, trovano un nuovo inizio proprio attorno al museo: persone che lavorano come guide, che raccontano ai visitatori cosa è accaduto, che danno voce alla memoria attraverso la loro esperienza diretta. E poi chi gestisce piccoli ristoranti, bed and breakfast, chi guida un taxi o lavora nel bookshop del museo, dove si possono trovare pubblicazioni, cataloghi, riproduzioni delle opere.
Immagino una comunità che, grazie a quelle opere e a quel museo, trova non solo una forma di riscatto simbolico, ma anche un’opportunità concreta per ripartire. Perché la rinascita, dopo una guerra, passa anche da questo: dal lavoro, dalla dignità, dal potersi ricostruire un futuro.
C’è un momento, tra tutti quelli vissuti sul campo, che porterete con voi per sempre?
MARIA – I momenti indelebili sono tanti, sono gli sguardi di tutte le persone che ci hanno ringraziato col cuore. Sono i momenti in cui eravamo talmente concentrati sul lavoro da dimenticarci, per un attimo, di trovarci in un paese in guerra. Ma bastava sollevare lo sguardo per ritrovarsi immersi in quel paesaggio in bianco e nero, tra macerie ovunque, che ci riportavano immediatamente alla realtà: non lontano da dove stavamo lavorando, la distruzione continuava a consumarsi, identica a quella che avevamo sotto gli occhi.
Indelebile il sapore delle zuppe, del shashlik e del pane. Indelebili le strette di mano vere, forti come gli Ucraini che abbiamo conosciuto. Indelebile l’emozione di toccare con mano opere importantissime che diventeranno la testimonianza di una guerra. Ed indelebile è aver vissuto questa esperienza con un gruppo di lavoro davvero speciale.