Intervista all’artista belga a Roma per la personale “Songs of the Canaries e Songs of the Gypsies”
ROMA – Esplorare i confini dell’arte, abbattere le barriere tra discipline, ridefinire i materiali e il corpo stesso come strumenti di ricerca: il lavoro di Jan Fabre si muove in un territorio fluido, in cui la scultura incontra la performance, la filosofia si intreccia con la scienza e l’immaginazione si fa veicolo di metamorfosi.
Attraverso una pratica che si nutre di storia e avanguardia, il suo linguaggio sfida le convenzioni, invitando il pubblico a un’esperienza di continua scoperta. Tra entomologia e anatomia, tra mito e tecnologia, ogni sua opera si fa specchio di una riflessione più ampia sulla fragilità e la resistenza dell’essere umano.
In questa intervista, in occasione della mostra Songs of the Canaries e Songs of the Gypsies (a cura di Dimitri Ozerkov, con contributi di Giacinto Di Pietrantonio, Melania Rossi e Floriana Conte) fino al 1 marzo 2025 presso la Galleria Mucciaccia di Roma, Fabre racconta la sua visione dell’arte, il suo rapporto con la tradizione fiamminga, il valore della provocazione e il legame profondo tra creazione e memoria. Una ricerca, la sua, che attraversa il tempo, sempre in bilico tra materia e sogno.

La sua ricerca artistica può considerarsi un incontro di discipline e materiali differenti. Qual è il ruolo della contaminazione tra arti visive, teatro e scrittura nel suo processo creativo?
Sono un artista della consilienza: il mio lavoro si basa sul concetto del “saltare insieme” della conoscenza, come lo ha definito Edward O. Wilson. La sua formulazione più affascinante la ritrovo in The Unity of Knowledge (1998): “un salto congiunto della conoscenza attraverso il collegamento di fatti e teorie basate sui fatti di differenti discipline, per creare una base comune di spiegazione e nuova interpretazione”.
Da oltre trent’anni, intreccio arti visive, teatro e scrittura, dando vita a uno spazio in cui filosofia, scienza e spiritualità dialogano tra loro in modo sovversivo, ma sempre con un profondo senso di riconciliazione.
Ogni disciplina nutre l’altra, collegando idee e linguaggi espressivi senza soluzione di continuità. La conoscenza dell’entomologia, ad esempio, apre a nuove interpretazioni nelle arti visive, così come l’intelligenza cinetica degli scarabei informa la mia ricerca sul movimento umano nellaperformance.
Come sceglie i materiali che utilizza nelle sue opere? C’è un significato simbolico dietro questa scelta?
Scelgo sempre il mezzo e il materiale più adatto all’idea che desidero sperimentare. Nella mia arte utilizzo spesso materiali resistenti, dal carattere iridescente, sensuale e fluido, con una delicata ambiguità. Il mio lavoro nasce da un’idea di bellezza: mi considero un servitore della bellezza.
Amo anche la durabilità delle cose. Creo per il futuro. Credo che le mie opere racchiudano enigmi e stratificazioni che si sveleranno più chiaramente all’osservatore tra 50 o 100 anni. Solo allora il mio lavoro potrà essere compreso pienamente. Smetterei di fare arte se pensassi che lemieopere non possano avere un significato nel futuro.

Il corpo umano e la sua rappresentazione sono ricorrenti nella sua ricerca. Quali aspetti del corpo l’affascinano di più e come vengono esplorati attraverso l’arte?
Il corpo non mente mai. In tutta la mia opera, interrogo il corpo, esplorandolo come porta d’accesso a ogni emozione, pensiero e contemplazione superiore. Gli aspetti materiali del corpo mi affascinano da anni: organi, scheletro, fluidi corporei come sangue, lacrime, urina e sperma sono stati sia soggetto che materiale per le mie opere visive e teatrali. Ma la parte che più mi affascina è il cervello, la chiave dell’immaginazione e quindi dell’arte.
Nel 2007, insieme allo scienziato E.O. Wilson, abbiamo creato il film-performance Is the Brain the Most Sexy Part of the Body?, in cui filosofeggiamo sul funzionamento e sui significati del cervello. Questo organo mi intriga perché è una “terra incognita”, un territorio ancora inesplorato.
Per anni ho indagato l’idea di un corpo fluido, un organismo composto interamente di sangue. Mi sono domandato cosa accadrebbe se il nostro scheletro interno si proiettasse all’esterno, trasformandosi in un esoscheletro. Non potremmo più essere feriti, e questo darebbe origine a una nuova dimensione del pensiero e delle emozioni. In Occidente, ad esempio, non crederemmo più in quell’uomo che camminava sulle acque.
Un essere umano che esiste solo per pensare, per sognare: questa è la mia speranza per il futuro. Nel nostro mondo, non veniamo pagati persognare. Sognare è proibito. Ma nel mio lavoro costruisco uno spazio sacro, in cui sognare diventa un atto di resistenza e il corpo può trascendere se stesso, pur rimanendo devoto alla carne.
Essere umani significa essere sospesi tra il desiderio di perfezionee l’inevitabilità del fallimento. Aspiriamo al divino, ma siamo creature di ossa esangue.
Molti suoi lavori si concentrano sul tema della metamorfosi e della trasformazione. Da dove nasce questo interesse e cosa rappresenta per lei?
Risponderò con le ultime righe del mio testo teatrale Requiem for a Metamorphosis, scritto tra il 2006 e il 2007 e pubblicato anche in italiano da Editoria & Spettacolo:
Chiunque noi siamo
Ovunque noi siamo
siamo circondati dal mistero della morte
La morte è la madre della bellezza
ed è lei sola che alimenta
i nostri desideri e i nostri sogni
Ed è solo per lei
che i nostri corpi e le nostre catastrofi si compiono
La morte è il padre della METAMORFOSI
(Questo non è la fine)
Il tempo e la memoria: in che modo questi concetti influenzano il suo approccio all’arte?
Uso scarabei nelle mie opere fin dagli anni ’90, raccolti attraverso i miei contatti entomologici, come materiale artistico. Per me, incarnano l’idea dellametamorfosi, un processo fondamentale nel mio lavoro. Lo scarabeo è, in un certo senso, uno dei più antichi computer del mondo. Contiene la memoria della nostra civiltà, è quasi un radar dell’umanità. Sono insetti con un esoscheletro: ecco perché sono sopravvissuti per milioni di anni senza cambiare.
Lo sa che gli scarabei sono stati i primi guerrieri chimici del mondo? In molte delle mie sculture, disegni e installazioni, simboleggiano il legame tra vita e morte, come nelle classiche Vanitas.
Il mio lavoro è incentrato sull’assorbimento e rilascio di energia, sull’elettricità, sul cambiamento. Registro energia, tempo e intensità. Sono affascinato dall’atto del fare. Ad esempio, nel lavoro Tivoli (1990), avrei potuto semplicemente disegnare sopra una fotografia di quel castello a Mechelen, ma ho scelto di coprirlo interamente con una penna Bic blu.
Il processo di creazione, così come il permettere ad altri di creare, mi procura un piacere immenso. Non posso farne a meno: amo profondamente questa esperienza fisica. Voglio dar vita a uno spazio in cui il pubblico possa perdersi, dove il tempo si dissolva e si possa sperimentare un diverso stato dell’essere.

I suoi lavori suscitano spesso reazioni contrastanti. Come vive questa polarizzazione e qual è, secondo lei, il ruolo della provocazione nell’arte contemporanea?
Per me, il pubblico è allo stesso tempo spettatore e specchio. Osserva e giudica il mio lavoro—spero!—sia in modo positivo che negativo, ma non lascio che la loro visione influenzi le mie creazioni future.
Non voglio prescrivere emozioni né dire a nessuno come dovrebbe sentirsi riguardo alle mie opere. Voglio che restino sospese nell’aria, libere, vive, spontanee, senza regole né aspettative. Non inizio mai un progetto con l’intento di provocare. Il mio desiderio più sincero è curare le ferite nella mente dello spettatore, spostare il suo modo di pensare, trasformare il suo sentire.
Rifiuto ogni forma di cinismo nell’arte. La provocazione è un atto di stimolazione mentale, ma spesso i critici ne danno un’interpretazione negativa. Gran parte dell’arte contemporanea è intrisa di cinismo, troppo legata alle logiche del potere e del mercato. Io, invece, scelgo ogni elemento con metodo, in funzione della mia ricerca e del mio processo di sperimentazione.
Ciò che per me è organico e naturale, per il mondo esterno può sembrare provocatorio. Ma questo dice di più sulla società che sullo spirito del mio lavoro.
Ci sono artisti, movimenti o esperienze personali che hanno segnato il suo percorso?
Devo molto ai miei genitori.
Io sono un nano nato nel paese dei giganti. Mio padre mi portò nella casa di Rubens per illustrarmi la sua opera e il suo genio, imponendomi una disciplina precisa: copiare i suoi disegni e dipinti per affinare la tecnica e comprendere le variazioni anatomiche del corpo nei diversi periodi artistici. La grandezza di Rubens ebbe su di me un impatto profondo. In seguito, vidi i dipinti di Hieronymus Bosch in un museo e, più tardi, mi avvicinai a van Eyck e van Dyck. L’intera tradizione fiamminga era a mia portata, e lì affondano le mie radici. Questi artisti sono straordinariamente brillanti, visionari, audaci e sovversivi. Un dipinto di Bosch o di van Eyck è infinitamente più innovativo e dirompente di gran parte dell’arte contemporanea odierna.
Attingo molto da questi artisti e, quando realizzo omaggi, è il mio modo di rendere tributo alla tradizione. Sono convinto che la vera avanguardia abbia radici profonde nella tradizione, perché è sempre da lì che germoglia. Non si può essere avanguardisti nel vuoto. In definitiva, mio padre mi ha trasmesso la passione e l’amore per l’immagine e il corpo.
Mia madre, invece, durante le cene rielaborava incessantemente le storie bibliche con le sue interpretazioni o traduceva per me la letteratura francese in fiammingo. È stata lei a insegnarmi che il più straordinario dei guerrieri è una donna, una madre. Questo pensiero e questa immagine attraversano tutta la mia opera.
Il mio legame con le parole e le immagini affonda le radici nei miei genitori: il disegno e la scrittura sono le fondamenta del mio lavoro.
Come è cambiata la sua visione dell’arte e del suo ruolo di artista nel corso degli anni?
La mia opera The Man Who Measures the Clouds (1998) incarna la mia vocazione. È un omaggio a mio fratello scomparso, un sognatore, ma rappresenta anche il tentativo di pianificare l’impossibile—esattamente ciò che fa un artista. La figura, in bilico su una scala da biblioteca poggiata sul bordo di una cassa, solleva un righello verso il cielo.
Essere un artista è un atto rischioso, nel senso più letterale e metaforico. Gli artisti cercano di comprendere il mondo, ma la realtà sfugge sempre alle previsioni. La vita è fluida, mutevole: oggi non siamo più dove eravamo ieri. L’artista misura, stabilisce connessioni—mentali, fisiche, politiche, filosofiche. Io misuro costantemente questi legami. Questo è il mio compito: misurare le nuvole.
Un artista è sempre alla ricerca dell’utopia, di dimensioni che superano l’immaginazione, capaci di trasformare il pensiero e le emozioni. Misurare le nuvole, dirigere le stelle… sono atti di fede nella terra e nel cielo, nell’umanità e nella natura.
La mia opera The Man Who Bears the Cross (2015) riflette questa continua tensione tra gli opposti, la condizione del dubbio e della ricerca—esperienze comuni a tutti. È la necessità di trovare un senso a guidarci sempre avanti.
Lei è stato il primo artista vivente a esporre al Louvre e all’Hermitage. Come hanno influenzato il suo percorso queste importanti esperienze?
Ho inaugurato entrambe le mostre con la mia installazione scultorea I let myself drain (dwarf): la mia figura appare come un nano, un artista maturo, chinato e arreso davanti a un maestro fiammingo. Il mio naso sanguina, ferito dallo scontro con un dipinto di un grande del passato.
Mi sono scontrato con il muro della storia, ma non è una lotta: è un gesto di rispetto verso i giganti che mi hanno preceduto e una dichiarazione di devozione assoluta all’arte. Dico sempre: senza tradizione, senza la conoscenza degli antenati e delle proprie radici culturali, non esiste avanguardia. È necessario svuotarsi per permettere a qualcosa di nuovo di nascere e crescere.
Mi raffiguro come un nano invecchiato perché il mio incontro con i maestri fiamminghi ha alimentato in me il desiderio di diventare artista. Solo da lì posso iniziare il mio percorso artistico. Ci vuole tutta una vita per diventare un giovane artista.
Nutro una profonda ammirazione per i maestri fiamminghi, per la loro immaginazione smisurata e il loro spirito sovversivo. Sono molto più sovversivi e moderni di tanti artisti contemporanei.
Trovarmi faccia a faccia con questi maestri al Louvre e all’Hermitage mi ha reso ancora più modesto come artista.

Nelle sue opere è possibile intravedere una riflessione sulla fragilità dell’esistenza umana. Quale messaggio intende trasmettere?
Credo che la morte sia una parte essenziale della vita. Camminiamo con la morte dentro di noi, con uno scheletro che ci accompagna costantemente.
Sono stato in coma due volte, e tutta la mia opera è essenzialmente incentrata sulla fase post-mortem dell’esistenza. La prima volta per nove giorni, a 19 anni; la seconda per dodici giorni, a 23 anni. Queste esperienze hanno avuto un impatto enorme su di me, portandomi a riflettere continuamente sulla vita, sulla bellezza e sull’arte.
Credo che il mio lavoro parli della forza e della vulnerabilità dell’esistenza, ed è una dichiarazione di fiducia nell’umanità. Vedo la morte come un campo di energia positiva, non negativa. La morte ci mantiene vigili.
Per molti l’utilizzo degli animali nelle sue opere sfiora il maltrattamento. Secondo lei è una visione distorta della sua arte? E se si, perché?
Prendiamo The Catacombs of the Dead Street Dogs (2009-2017). I cani presenti nell’installazione sono stati trovati nei dintorni di Anversa: molte persone li acquistano e poi li abbandonano per strada durante l’estate, condannandoli a morte.
Questa installazione è, di fatto, un omaggio a questi animali. Credo che parli anche della forza e della vulnerabilità, sia dell’uomo che degli animali. Difendere questa vulnerabilità è la mia missione come artista. Il guerriero della bellezza incarna questa idea romantica e politica.
In un certo senso, sono un artista medievale.
Da bambino, mio padre mi portò allo zoo e mi fece scoprire le opere di Alfred Ost e Karel Verlat. Fu grazie a loro che iniziai a studiare l’intelligenza cinetica degli animali.
Sono sempre stato affascinato da loro: la loro metamorfosi, la loro velocità, la loro intelligenza. Perché, per me, gli animali sono sempre stati i migliori medici e i migliori filosofi del mondo.

Gli ultimi lavori sono attualmente esposti a Roma, in una prestigiosa galleria d’arte. Che rapporto ha con questa città? L’ha mai sentita di ispirazione per qualcuna delle sue opere?
Fin dagli anni Ottanta ho presentato il mio lavoro teatrale e le mie arti visive in Italia, un Paese che è sempre stato per me una fonte di ispirazione profonda e multiforme.
Le due mostre che porto a Roma presso la Mucciaccia Gallery sono state inizialmente presentate in due parti nella sede londinese della galleria, con la curatela di Dimitri Ozerkov, già curatore della mia grande personale al Museo Statale dell’Ermitage di San Pietroburgo nel 2016. Entrambe le sezioni dell’esposizione sono legate da una forte interconnessione filosofica, sociale e artistica, e rappresentano un esercizio di consilienza, il principio che guida la mia ricerca.
Tutte le sculture sono scolpite manualmente in puro marmo bianco di Carrara, un materiale che considero sensuale ed erotico. Ho lavorato a questo gruppo di opere per quasi tre anni, con il supporto di artigiani di Carrara. Presento inoltre una nuova serie di disegni realizzati con l’assistenza di mio figlio, Django Gennaro.
La prima mostra, Songs of the Canaries (A tribute to Emiel Fabre and Robert Stroud), è un insieme di sette piccoli cervelli da cui emergono canarini, simbolo del pensiero e delle ricerche dell’ornitologo Robert Stroud. L’opera è anche un omaggio a mio fratello, Emiel Fabre, morto a causa di quella che in Belgio viene chiamata “la malattia dei canarini che cantano troppo forte nelle tue orecchie”. L’esposizione include anche una grande scultura, The Man Who Measures His Own Planet, dove il volto è quello di mio fratello scomparso, il corpo è il mio, mentre il cervello visibile—unpianeta spaccato—rappresenta la mente di Robert Stroud.
La seconda mostra, Songs of the Gypsies (A tribute to Django Reinhardt and Django Gennaro Fabre), nasce dal mio profondo amore per mio figlio Django Gennaro Fabre e dalla mia ammirazione per il leggendario musicista Django Reinhardt. Chiamarlo Django è stato un tributo al genio di Reinhardt, un connazionale belga che ha trasformato l’avversità in un’innovazione musicale straordinaria: il gypsy jazz.
La mostra presenta tre sculture in marmo raffiguranti mio figlio Django all’età di sei mesi, ma grandi quanto il mio corpo adulto. Lo si vede in tre pose diverse: The Freefaller (of Art), mentre vola, The Peacemaker( of Art), seduto con il segno della pace, The Partisan (of Art), intento a gattonare. Ho voluto che ogni posa fosse permeata dall’energia infantile, trasmettendo gioia e curiosità, qualità essenziali nel mio lavoro.
Vademecum
Songs of the Canaries e Songs of the Gypsies
di Jan Fabre
l 1° marzo 2025
Galleria Mucciaccia,