TORINO – La vicenda del “Papiro di Artemidoro” si chiude con la conferma che si tratta a tutti gli effetti di un falso. Spacciato per un prezioso documento del I secolo a.C., il reperto era stato venduto nel 2004 dal mercante d’arte egiziano Serop Simonian alla Fondazione per l’Arte della Compagnia San Paolo di Torino (ora Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura della Compagnia S. Paolo di Torino) per 2 milioni 750mila euro.
Subito dopo la compravendita, diversi studiosi, in primis il professor Luciano Canfora, avevano sollevato forti dubbi sulla sua autenticità. Dubbi confermati da successivi approfondimenti e oggi anche dalla procura di Torino.
“La certezza del falso è abbondantemente provata, quanto meno sulla base di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti. – Scrive il procuratore capo di Torino, Armando Spataro – E’ stato ritenuto inutile, quindi, disporre una consulenza tecnica, tanto più che i costi di questa non potrebbero essere giustificati, considerata l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione”, disposta nei giorni scorsi dal presidente della sezione gip del Tribunale di Torino, che ha accolto la richiesta della Procura.
La discussione scientifica sull’autenticità del Papiro si era sviluppata dal 2006. Il reperto era destinato al Museo Egizio di Torino in comodato gratuito, ma da subito la direzione del Museo aveva rifiutato il Papiro anche a causa del grave sospetto che si trattasse di un falso o che potesse provenire da esportazione illegale.
Il Papiro si presenta come un documento frammentario, alto 32,5 centimetri e lungo circa due metri e mezzo, con disegni di vario genere, tra cui animali, parti anatomiche e mappe che si pensava raffigurassero la carta geografica più antica del mondo e un testo in greco. Attribuito inizialmente al geografo Artemidoro di Efeso, il reperto era stato fatto risalire alla fine del I secolo a.C. Tenuto a lungo nei magazzini della Reggia di Venaria, sempre col sospetto si trattasse di un falso, era stato poi esposto al Museo di Antichità di Torino, ma con l’avviso che potesse trattarsi di un documento non autentico.
Le indagini condotte in seguito dai carabinieri avevano confermato i sospetti, anche se sono tuttora in corso ulteriori analisi, affidate all’Ipcral (Istituto centrale per il restauro e la conservazione patrimonio archivistico e librario), disposte dal Ministero dei Beni culturali.
Il procuratore Spataro, mettendo fine alla vicenda, scrive ancora: “Come risulta dalla documentazione fornita dalla Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura le evidenze preliminari sembrano supportare la tesi del falso più di quella dell’autenticità. Ci si intende riferire sia agli accertamenti svolti sulla composizione degli inchiostri usati per il Papiro Artemidoro, che appare decisamente diversa da quella degli inchiostri usati nei papiri egiziani che coprono il periodo dal I al VI sec., sia ai frammenti scelti dall’Ipcrap, che sembrano far emergere l’ipotesi che il Papiro sia stato posizionato su una rete metallica zincata e sottoposto ad azione di acidi, un trattamento che ha determinato il trasferimento dello zinco dalla rete metallica al Papiro”.