Ricci espone alcune sue opere nell’ambito della collettiva “Dialoghi in ordine sparso”, organizzata dalla E.A.C. (Edizioni d’Arte Contemporanea), fruibile fino al 27 novembre 2016. Osservando i lavori dell’artista, colpisce l’aspetto plastico-pittorico e la particolare interazione tra pittura e scultura, che si ritrova in ogni opera.
Siamo davanti ad una delle opere appartenenti alla serie più recente “quadro su quadro”, che tipo di lavoro sta portando avanti qui?
È un lavoro sullo spazio e secondo me una delle cose più importanti è l’ipotesi di poter ancora costruire qualcosa, superando un po’ l’azione di registrazione, che oggi è tanto diffusa, per andare invece a mettere un “mattone su mattone” un “quadro su quadro” appunto. Ciò che è importante è il procedimento concettuale. L’artificio pittorico mi porta a far si che si fruisca il lavoro in modo quasi divertente, ma la scelta del colore serve a portare chi guarda dentro il quadro.
Quindi il colore è un mezzo per arrivare all’osservatore?
Sì, perché l’aspetto interessante è il finto plastico e il plastico vero.
Benché siano opere pittoriche, alla base c’è un pensiero plastico. È così?
Sì, e pensare un quadro in maniera tridimensionale, in un certo senso, ha a che fare con una riflessione sul rinascimento, sul cinquecento.
C’è anche un senso barocco di meraviglia generato dall’uso della luce, mi pare?
E ci sono ambiguità e provocazione. In questo caso si crea un aspetto tattile che spinge il fruitore ad avvicinarsi all’opera.
L’opera quindi è anche un po’ performance?
Vero, c’è questo aspetto.
Come sono costruite le opere? Ogni quadro ne contiene tanti altri, in che modo li realizza?
Lavoro da artigiano, realizzo e dipingo ogni elemento autonomamente e poi li assemblo quando sono capovolti, e in questo modo non vedo cosa succede, anche se sul retro ogni pezzo è numerato. Potrei anche spostarne uno, ma cambierebbe l’intera opera.
Ogni lavoro quindi ha un equilibrio con cui il fruitore è chiamato a rapportarsi?
Sì, ma resta comunque il mio equilibrio.
Che senso hanno le parti monocrome, che definisci lacune?
Le lacune sono le vere sculture, mentre quello che sembra scultura non lo è. In un certo senso è un inganno, che serve a far avvicinare il fruitore.
Qual è invece la caratteristica delle opere della serie “Movimenti sotto tela”?
Sono opere in cui più l’oggetto sembra venire avanti, più è evidente il vuoto che c’è dietro.
In questo la tela che funzione ha?
La tela è l’involucro che contiene. Ma in queste opere come nelle altre, il vero volume è il vuoto.
Perché questo rimando continuo al vuoto?
Probabilmente è una situazione che stiamo vivendo, ma è un vuoto che cerco comunque di circoscrivere.
Tornando ai lavori di “quadro su quadro”, che significato hanno le scomposizioni?
Il quadro a volte si apre, a volte si chiude e il vuoto diventa davvero la cosa più importante.
E lei lo percepisce più come quadro o come scultura?
Diventa scultura quando si percepisce lo spessore. Sono le mancanze che ci fanno percepire i pieni.
Che senso ha la mancanza?
Diventa per me un’esigenza strutturale. La mancanza fa percepire la presenza, e queste mancanze qui diventano architettura.
Sono lavori davanti ai quali si sente l’esigenza di fermarsi a guardare e riguardare. Costruiscono una propria temporalità?
Sì, superata la meraviglia dell’impatto, c’è una stratificazione di letture. Sono lavori che hanno anche un profondo silenzio, si percepisce quasi il “vuoto pneumatico”.
Cosa intende per vuoto pneumatico?
È un qualcosa che riprende vita, che comincia a respirare.
La lacuna, il frammento, possono rappresentare un senso di apertura a ciò che deve arrivare, forse rappresentano un po’anche la caratteristica del nostro tempo, che sembra essere un’attesa infinita?
Io nei miei lavori tento un po’ di distogliere l’attenzione da questa drammaticità, ma in realtà c’è tutta, soprattutto nelle assenze.
All’interno di tutto il suo lavoro, quali sono i riferimenti artistici a cui sente di essere più legato?
Per un aspetto pittorico direi Piero Della Francesca, ma il lavoro ha una linea che parte da Fontana, passando per i “gobbi” di Burri, poi Manzoni, arrivando fino a Pascali.
E quando crea, si rifà a momenti vissuti, a ciò che vede?
A volte si, ma negli ultimi anni è diventato un po’ un ritrovare delle carte da gioco all’interno del proprio lavoro.
Riguardo al lavoro passato, ci sono sue mostre o progetti che ricorda in modo particolare?
C’è quella che feci a Seattle, dove presentai un’opera enorme, il “Giudizio Universale” realizzato in iuta ingessata, a diversi livelli, su cui sopra c’era una tela semi trasparente. Il lavoro rientrava nella serie dei “Bianchi sotto tela”. Poi ricordo un lavoro sui tessuti urbani, dove la mappa costituiva il tessuto, che si rapportava ad enormi oggetti di uso quotidiano. Fu un lavoro enorme realizzato per una mostra commissionatami per le Officine Farneto e che poi non fu realizzata, fortunatamente riuscii comunque a vendere le opere. Un’altra mostra grande è stata organizzata qui al C.I.A.C. ed occupava tutto il castello.
Ora ha progetti su cui sta lavorando?
Siamo in contatto con il museo di Lissone, e poi ci sono anche altre cose, in ogni caso ora il mio lavoro è questo del “quadro su quadro”. In questo momento mi sento tranquillo in questo lavoro qui.
Per il momento?
Sì, per il momento. (sorride)