Il debutto italiano dell’artista sudcoreano: tredici opere tra paesaggi interiori, visioni ecologiche e allegorie contemporanee
ROMA – Maschere, infanzia e fine del mondo. La mostra personale di Lee Gihun, dal 5 giugno 2025 alla Dorothy Circus Gallery, si muove come un canto stonato tra simbolismo e rovina, accarezzando le fragilità dell’umano sotto forma di parata silenziosa.
L’infanzia è un campo di battaglia
Una processione di bambini mascherati attraversa un paesaggio plumbeo e desolato. Speranza e condanna si dissolvono, lasciando spazio a una sospensione inquieta. Masquerade – Pietà trasforma la galleria romana in un teatro muto, dove la pittura sussurra più di quanto affermi.
Il titolo della mostra suggerisce uno scarto: Masquerade evoca finzione e travestimento, Pietà custodisce secoli di iconografia cristiana e dolore materno. Gihun mette in tensione questi due poli, costruendo un racconto visivo in cui l’infanzia diventa testimone silenziosa di un mondo esausto.
Simboli ambigui e narrazioni senza voce
Tredici opere – tra inediti e lavori dalle serie Masquerade e Wonder – compongono un atlante emotivo fatto di stratificazioni materiche, ambientazioni desolate e figure antropomorfe. Il linguaggio pittorico di Gihun unisce acrilico, pastello a olio e materiali di recupero, come carte da parati in seta e oggetti scolastici, creando superfici che sembrano conservare la memoria di chi le ha toccate. C’è una tensione latente, una malinconia che si fa struttura narrativa.
Ogni opera assume la forma di un archivio visivo, dove la pittura trattiene il tempo e restituisce, più che immagini, atmosfere. L’equilibrio tra tecnica e intuizione genera un ritmo ipnotico, in cui nulla viene spiegato, e tutto resta in sospensione.
La tensione tra il mondo naturale e quello artificiale emerge nella costruzione di ambienti senza coordinate, dominati da presenze silenziose e architetture evanescenti. Le figure mascherate agiscono come catalizzatori di senso: creature ibride tra favola e sopravvivenza. Il riferimento all’Arca di Noè, accennato in alcune opere, si traduce in una visione poetica della cura e della responsabilità verso il vivente, lontana da ogni retorica apocalittica.
Un lessico pittorico che sfida la semplificazione
La ricerca di Lee Gihun prende forma in un contesto personale segnato dal dialogo tra ruralità, industria e spiritualità popolare. Le sue immagini aprono spazi di riflessione visiva costruiti su equilibrio, sospensione e ambiguità. Ogni opera sembra trattenere il senso senza mai esaurirlo, suggerendo percorsi di lettura aperti, frammentari, mai univoci. L’artista concepisce la pittura come un campo di tensione tra materia e visione, tra ciò che resta visibile e ciò che affiora appena. Una pittura che esclude ogni scorciatoia, proponendo un tempo altro, in cui guardare significa esporsi al dubbio, al dettaglio, alla fragilità del senso.