MILANO – Gli innumerevoli e multiformi universi sia culturali che estetici, che popolano il panorama artistico dei Paesi della cosiddetta Africa Subsahariana, sono al centro della collettiva dal titolo WE CALL IT AFRICA. Artisti dall’Africa Subsahariana, a cura di Silvia Cirelli, ospitata alla galleria Officine dell’Immagine di Milano dal 9 febbraio al 2 aprile 2017. Il titolo dell’esposizione vuole provocatoriamente soffermarsi su quante volte si adoperi una forzata specificità geografica o generazionale, circoscrivendo o ancor peggio “ghettizzando” una particolare scena creativa.
La mostra rappresenta dunque il tentativo di esplorare le varie e diverse “Afriche”, mettendo l’accento in particolare sul rapporto fra arte e società contemporanea.
Sono quattro gli interpreti invitati a raccontare, per la prima volta in Italia, la complessa realtà africana. Si tratta di artisti che vantano anche importanti partecipazioni internazionali: Dimitri Fagbohoun era fra i protagonisti della collettiva The Divine Comedy al MMK Museum di Francoforte nel 2014; Marcia Kure è all’interno di prestigiose collezioni pubbliche come quelle del Centre Pompidou di Parigi, del British Museum di Londra e del Smithsonian National Museum of African Art di Washington; Maurice Mbikayi era fra i finalisti del Luxembourg Art Prize 2016; mentre Bronwyn Katz ha vinto nel 2015 il Sasol New Signatures Prize (Sudafrica) con il video Grond Herinnering, presentato anche in questa occasione.
Sono i lavori del congolese Maurice Mbikayi (1974) ad aprire l’esposizione. L’artista si concentra in particolare sull’impatto della tecnologia nel tessuto sociale africano, e sulla triste realtà delle discariche di rifiuti elettronici che stanno letteralmente avvelenando l’Africa. Alle installazioni realizzate interamente con materiali di riciclo tecnologico, l’artista affianca opere che indagano il tema del dandismo nella quotidianità congolese, un fenomeno molto diffuso che adotta, oltre a una certa eccentricità nell’abbigliamento, anche uno specifico modello etico.
Seguono i lavori di Marcia Kure (1970), che s’interroga invece sugli effetti del post-colonialismo e la conseguente frammentarietà identitaria e sociale. Nel suo vocabolario estetico convivono tradizione e ispirazioni prettamente metropolitane, espressione invece di una cultura contemporanea.
Dimitri Fagbohoun (‘72) spazia fra scultura, video e installazioni, spingendo verso un eclettismo grammaticale che esalta temi quali il ricordo, la politica, la religione e la dimensione poetica dell’esistenza.
La mostra si chiude con la giovane Bronwyn Katz (1993), che stupisce con una ricerca artistica dal complesso potere immersivo. E’ la terra, come depositaria e custode della memoria culturale sudafricana, ad essere al centro della sua cifra stilistica. L’aspetto sensoriale risulta dominante nella trama estetica di questa artista capace di svelare, con timida urgenza, un universo che da privato, diventa ben presto collettivo.