FIRENZE – In occasione del G7 della Cultura, che si terrà a Palazzo Vecchio di Firenze il 30 e il 31 marzo, una copia dell’Arco di Palmira, monumento distrutto dai miliziani dell’Isis nell’ottobre del 2015, verrà esposta in piazza della Signoria, proprio davanti a Palazzo Vecchio, dal 27 marzo al 27 aprile, come simbolo della rinascita e della ricostruzione delle opere patrimonio dell’umanità. L’Arco ricordiamo fu costruito in Siria tra il secondo e il terzo secolo dopo Cristo e venne dedicato all’imperatore romano Settimio Severo.
L’Arco di Palmira rientra nella lunga serie di distruzioni compiute dall’Isis nel corso del 2015. Proprio allora infatti i miliziani presero possesso del sito archeologico di Palmira e con una serie di azioni successive sfogarono il loro odio contro la cultura occidentale. Venne infatti decapitato l’archeologo Khaled Assad, responsabile del sito archeologico e vennero distrutte opere d’arte e reperti di inestimabile valore. In particolare venne fatto saltare in aria il Tempio di Baal e quello di Baalshamin.
La copia dell’Arco è stata realizzata grazie alle nuove tecnologie, nell’ambito del progetto “The Million Image Database” per la tutela e la salvaguardia del patrimonio culturale mondiale, promosso da The Institute for Digital Archaeology in collaborazione con UNESCO, Università di Oxford, Museo del Futuro di Dubai e governo degli Emirati Arabi Uniti.
Si tratta di un’operazione di rilievo internazionale che nasce di fatto in Toscana. La copia dell’Arco infatti è stata realizzata da Torart, un’azienda di Carrara guidata da due giovani imprenditori, Giacomo Massari e Filippo Tincolini, specializzata in scultura, arte contemporanea e design nell’applicazione delle nuove tecnologie nella lavorazione del marmo, pietre e materiali duri di diversa natura. Attraverso un approccio non invasivo, la tecnologia usata da Torart può essere applicata al mondo del restauro, offrendo la possibilità di riprodurre delle opere fino nei minimi dettagli e in modo che la lavorazione rimanga sostenibile e rispettosa nei confronti del materiale originario, del valore storico e del patrimonio culturale a cui appartiene.
La riproduzione dell’Arco di Palmira è stata già esposta a Londra e a New York ed arriva per la prima volta in Italia, proprio a Firenze, in un simbolico tour che ha l’obiettivo di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale sull’importanza di prendersi cura del patrimonio artistico e culturale dell’umanità.
Sempre fino al 27 aprile verrà esposta anche il celebre bronzo etrusco, la Chimera di Arezzo. L’opera verrà posta in Sala Leone X di Palazzo Vecchio in dialogo nella stessa sala con il disegno preparatorio all’opera realizzato da Baccio Bandinelli e al busto di Cosimo I, anch’esso del Bandinelli.
L’ultima apparizione della Chimera in Palazzo Vecchio risale all’epoca delle grandi celebrazioni medicee del 1980; sarà quindi data l’occasione a un nuovo pubblico di fiorentini e non di rivedere lo splendido manufatto d’arte etrusca nel contesto originario della Sala di Leone X, dove venne appunto collocato in seguito al suo fortuito ritrovamento nel Cinquecento.
La Chimera suggellò il revival etrusco, promosso da Cosimo I de’ Medici con campagne e scavi archeologici, imprese letterarie ed erudite come quella dell’Accademia Fiorentina. Perfino Giorgio Vasari pescherà nella storia toscana, teorizzando una primazia dell’arte etrusca nei confronti di quella classica, affidando il suo giudizio alla presenza della Chimera rinvenuta ad Arezzo il 15 novembre 1553, “dieci braccia sottoterra“ in prossimità del baluardo che si stava costruendo presso la porta di San Lorentino. Un rinvenimento inaspettato che desterà grande sorpresa e che contribuirà efficacemente alla riscoperta della passata grandezza toscana e alla definizione della figura di Cosimo come nuovo principe etrusco. Lo ricorda anche Benvenuto Cellini: “essendo in questi giorni trovate certe anticaglie nel contado d’Arezzo, in fra le quali si era la Chimera, ch’è quel lione di bronzo il quale si vede nella camera vicino alla gran sala del Palazzo, ed insieme con la detta chimera si era trovato una gran quantità di piccole statuette pure di bronzo, le quali erano coperte di terra e di ruggine, ed a ciascuna di esse mancava o la testa o le mani o i piedi, il Duca pigliava piacere di ricettarsele de per se medesimo con certi cesellino da orefice.”
L’impressionante scultura etrusca venne collocata, su suggerimento del Vasari, nella cornice della Sala Leone X, a simboleggiare le forze negative – gli eventi più disastrosi e contrapposti, i malvagi nemici – dominate da Cosimo nella costruzione di un nuovo e ideale regno di Etruria: come non mancò di sottolineare lo stesso Vasari, “ha voluto il fato che la si sia trovata nel tempo del Duca Cosimo il quale è oggi domatore di tutte le chimere”.
Fin dal Cinquecento la Chimera è stata oggetto di studio erudito. Le fonti confermano che Benvenuto Cellini si sarebbe dovuto occupare di restaurare la statua, ricostruendo la coda di cui l’animale era privo. Tale integrazione verrà eseguita però solo nel 1784 dallo scultore Francesco Carradori su indicazione di Luigi Lanzi, quando ormai la fiera – dal 1712, dopo quasi due secoli di permanenza nel Palazzo di piazza, si trovava agli Uffizi. Dal XIX secolo, il bronzo è invece conservato al Museo Archeologico Nazionale di Firenze.
Le prime notizie della bestia terrificante si hanno nell’Iliade, dove Omero la descrive composta di tre nature: di leone, capra e serpente. Lanciava fuoco dalla bocca e venne uccisa dal casto Bellerofonte, figlio di Glauco, come predetto dagli dei. La troviamo citata anche nella Teogonia di Esiodo e nell’Eneide di Virgilio. Servio Onorato riporta che la bestia era originaria della Licia, dove si erge un vulcano con lo stesso nome. Per Plutarco, invece, Chimera sarebbe stato un pirata che aveva decorato le vele del suo vascello con immagini di leone, capra e un colubro. Certo che l’animale, fantasioso intreccio di creature reali, è diventato il simbolo di qualcosa di impossibile e di fantastico, andando a incarnare, come ci ricorda Borges nel suo Manuale di zoologia fantastica, una vana immaginazione o un’idea falsa.