Dall’oblio è riemerso un ritratto. È un giovanissimo giapponese ed era il 1585 quando Domenico Tintoretto, figlio del più famoso Jacopo, lo dipinse a Venezia, approfittando della sua presenza in laguna in rappresentanza di un popolo misterioso ed affascinante che gli italiani avevano cominciato a scoprire grazie a Il Milione di Marco Polo e di cui, proprio in quegli anni, imparavano ad amare la cultura raffinatissima e millenaria.
È il ritratto di Ito Mancio, un giovanissimo quattordicenne che nell’isola di Kyushu si era convertito al cristianesimo grazie ai Gesuiti e che, sempre grazie a loro, era arrivato in Italia insieme ad un gruppo di altri giovanetti che avrebbero dovuto fare da ponte tra i due paesi. Roma e l’Italia, allora, erano il centro del mondo cristiano, e i gesuiti volevano che l’impatto forte della culla della cristianità tornasse indietro a far proseliti in Giappone grazie alle impressioni suscitate dal nuovo mondo sui giovanissimi giapponesi in viaggio in Europa.
Il ritratto di Ito Mancio è il fulcro della raffinatissima mostra Quando il Giappone scopre l’Italia. Storie di incontri 1585 – 1890, al Mudec fino al 2 febbraio 2020, promossa dal Comune di Milano – Cultura e curata da un comitato scientifico di altissimo livello presieduto dal professor Corrado Molteni, già addetto culturale presso l’Ambasciata di Italia a Tokyo e ora docente all’Università degli Studi di Milano. Una mostra che fa parte del progetto Oriente Mudec per l’autunno 2019 e che offre al pubblico uno spunto importante: approfondire, attraverso due sezioni, gli scambi tra Giappone ed Europa nel corso dei secoli e l’incontro culturale tra due mondi diversissimi e lontanissimi ma in continua attrazione reciproca.
“L’esposizione – spiega Molteni, appassionato di Giappone sin dal 1977 quando vi mise piede per la prima volta da neolaureato, per ultimare i suoi studi bocconiani in economia – nasce da un convegno organizzato nel 2018 dall’Aistugia, Associazione Italiana per gli Studi Giapponesi, presso l’Università degli Studi di Milano alla quale prese parte anche la Fondazione Trivulzio, attuale proprietaria del quadro. Da lì nacque il progetto della mostra realizzato poi dallo staff scientifico del Mudec composto da Anna Maria Montaldo, dalle conservatrici Carolina Orsini e Giorgia Barzetti e dall’assistente conservatrice Anna Antonini, avvalendosi della stretta collaborazione di numerosi studiosi di livello internazionale”.
Due fondamentali momenti storici della lunga vicenda che caratterizzò i rapporti storici e i conseguenti scambi culturali di questi due mondi, sono protagonisti delle due sezioni in cui si articola il percorso espositivo. Il primo momento, raccontato nella sezione “Ito Mancio e le ambascerie giapponesi 1585 – 1615”, racconta il contatto iniziale rappresentato dall’arrivo in Europa nel 1585 dei “quattro ambasciatori” diretti a Milano. Il secondo momento invece si concentra, con la sezione “Un museo giapponese in Lombardia”, sulla riapertura dei rapporti del Giappone con il mondo nella seconda parte del diciannovesimo secolo, mettendo in evidenza il ruolo che alcuni mercanti d’arte e commercianti milanesi ebbero nella nascita delle prime collezioni e in particolare quella di Giovanni Battista Lucini Passalacqua, fulcro del percorso espositivo.
“Grazie alla Fondazione Trivulzio arriva quindi per la prima volta in Italia un quadro mai visto – spiega Molteni. – L’opera che raffigura Ito Mancio è di fatto il primo ritratto ad olio di un giapponese mai realizzato nella storia dell’arte occidentale”. Vestito come un nobile europeo dell’epoca, con tratti fortemente spagnoleggianti, il quadro pare sia stato rimaneggiato dallo stesso Tintoretto per essere venduto più facilmente, dopo essere rimasto invenduto nei depositi dello stesso artista veneziano. “Sul retro è la stessa scritta D(on) Mancio che riporta a Ito Sukemazu Mancio, un giovanissimo imparentato con una nobile famiglia giapponese. Ito, che aveva studiato con i Gesuiti, fu scelto per venire in Italia e gli venne affidato il ruolo di capo delegazione del gruppo che partì per nel 1582. Aveva soltanto 14 anni, ma per i Gesuiti era un investimento: negli anni a venire avrebbe testimoniato quanto aveva visto in Italia”.
In mostra anche un secondo ritratto, attribuito ad Archita Ricci (1560-1635) e proprietà della famiglia Cavazza Isolani di Bologna. “Si tratta di Hasekura Tsunenaga, ed è un olio su tela del 1615 circa. Il cardinale Scipione Borghese lo commissiona ad Archita Ricci per celebrare la seconda ambasceria giapponese in Italia che risale il 1615, un’altra tappa importante dei rapporti tra Italia e Giappone”. Archita Ricci raffigura Hasekura Tsunenaga in un elegantissimo chimono bianco impreziosito da decorazioni floreali e animali, spade di samurai e simboli di quel viaggio, dal Giappone all’Europa passando per Cuba e Spagna, che lo avrebbe portato ad essere ricevuto da Papa Gregorio XVI.
“Italiani e giapponesi continuano la tradizione di reciproco interesse raccontata da questa mostra – spiega ancora Molteni che sta già lavorando ad un nuovo progetto espositivo ancora in collaborazione con il Mudec – per gli italiani il Giappone è ancora un paese preciso, meticoloso, quasi maniacale ma culturalmente molto evoluto che ha conservato la sua storia e riesce a valorizzarla. Ma l’attrazione è reciproca: i giapponesi infatti riconoscono agli italiani qualcosa che a loro manca. Nei dieci anni in cui ho lavorato all’Ambasciata italiana a Tokyo come addetto culturale – conclude Molteni – abbiamo organizzato moltissime esposizioni che hanno avuto sempre un grandissimo successo di pubblico e sono state molto frequentate a testimonianza dell’interesse che i giapponesi continuano ad avere nei confronti dell’Italia e degli italiani”.
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