MILANO – Dall’avvento degli smartphone e dei nuovi devices si è registrata un’impennata senza precedenti nella produzione di immagini; la supremazia dei social media ha poi preso il sopravvento, rendendo la pratica fotografica degli ultimi anni un fenomeno di massa, fatto di manifestazioni globali come Facebook e Instagram.
La fotografia è diventata materiale da condividere e da consumare in tempo reale, mostrando da un lato indubbi vantaggi – come l’immediatezza della smartphone photography e la diffusione della cultura dell’immagine a livello capillare – , e producendo contemporaneamente una problematica di grande valore sociale e “storico”.
La presenza massiccia di immagini che non vengono più stampate, o che vengono archiviate nella memoria dello smartphone, all’interno di supporti digitali o cloud, rischia di determinare una sorta di “oblio del ricordo”, di far perdere un’importante caratteristica della fotografia stessa, ovvero la sua capacità intrinseca di documentare e lasciare una traccia tangibile e accessibile di un volto, di un ricordo, di una storia. Una traccia che resta e che può e deve essere fisicamente ritrovata e recuperata.
“Una cultura si costruisce attraverso il ricordo, ma anche attraverso la selezione dei ricordi”, aveva detto Umberto Eco al Palazzo di Vetro dell’ONU in una lezione di tre anni fa dal titolo “Contro la perdita della memoria”. Un discorso che veniva fatto sulla cultura in generale, ma che potrebbe essere valido anche per la storia dell’immagine degli ultimi anni.
Sia che riguardi “fotografi 2.0”, come gli utenti e il popolo dei social media, sia che riguardi l’approccio del professionista, grande o piccolo che sia, è importante ricordare che solo la stampa consente, da un lato, di conservare realmente un ricordo da un punto di vista fisico, e che, dall’altro, solo tramite essa si può operare un processo di selezione attento che altrimenti si perderebbe nelle immense opportunità offerte dalla tecnologia digitale.
Il momento storico che stiamo vivendo ha già messo in seria crisi un mondo, quello della stampa fotografica di largo consumo, fatta per lo più di fotografie di nonni e bisnonni ormai impolverate all’interno di cassetti e vecchi album, che non avranno un corrispettivo riferito ai giorni nostri.
Il nuovo mondo dell’immagine sembra quindi essere a favore di un oblio del ricordo e della tradizione. La fotografia è diventata immateriale, “liquida”. Si realizzano immagini che restano in un ecosistema elettronico e solo raramente giungono ad essere stampate su carta. E, forse, solo a queste ultime sarà dato di superare l’oblio del tempo.
Affidarsi ai soli file digitali e rinunciare alla stampa – che potrebbe essere considerata come l’altro cinquanta per cento della Fotografia – credendo che questi file possano sopravvivere al veloce trascorrere del tempo, è pura utopia.
La stampa è in grado di donare alla Fotografia quella completezza che il virtuale le ha sottratto; una fotografia si guarda in maniera riflessiva, mentre un’immagine virtuale viene di solito consumata rapidamente. La stampa, nella sua prossima rarità, sarà la detentrice dei nostri ricordi futuri, mentre gran parte di tutto il resto sarà destinato a smarrirsi in un mondo virtuale in rapida evoluzione .
Il discorso è ovviamente differente per i grandi e piccoli autori della fotografia. Sono loro a mantenere vivo, insieme a pochi altri fotoamatori e nostalgici, il mondo della stampa, un mondo al quale fanno riferimento per le loro mostre fotografiche, le loro prove di stampa, le loro opere destinate alla vendita e dunque al collezionismo. Sono questi i protagonisti del nuovo mercato della stampa, quelli che oggi non possono rinunciarvi, ma che devono operare delle scelte determinate dal momento storico in cui vivono e dall’evoluzione tecnica davanti alla quale si sono trovati.
Queste scelte, per semplificare, sono orientate in due direzioni che possono sembrare ad un occhio superficiale diametralmente opposte: stampa analogica e stampa digitale.
Due mondi che non sempre sono in contrapposizione e dall’incontro dei quali possono emergere esperienze e figure che stanno ottenendo dalla connessione tra tradizione e innovazione un valore aggiunto senza paragoni. Dando vita quindi ad una sorta di magia che consente di unire le pratiche di ripresa più attuali con le tecniche di stampa più antiche.
È il caso di Giulio Limongelli e del suo approccio che nasce da un principio unico: usare i vecchi metodi di stampa anche con i file digitali, utilizzando un ingranditore digitale per stampare così come si stampava da un normale negativo. Questa particolare visione della stampa fotografica ha portato questo vero “Maestro di Bottega”, dal suo Studio Fine Art di Bologna alla creazione di uno strumento di sua invenzione, il Digingranditore, che gli ha consentito di tornare in camera oscura con dei file digitali, potendoli trattare come se fossero dei negativi, quindi con gli stessi procedimenti di mascherature, bruciature ed esposizioni differenziate.
La carta viene sviluppata nel processo in bacinella così come si faceva anche con le stampe del negativo.
In un’epoca in cui l’immagine si orienta quindi verso una visione “full digital”, legata ad esempio alle stampe a getto d’inchiostro o anche ad alcuni sistemi di stampa che prevedono sì un processo chimico ma
non la proiezione del file, Limongelli desiderava tornare ad un prodotto più genuino che tenesse comunque conto dell’evoluzione raggiunta dalle macchine.
Il valore della sua stampa si articola quindi su diversi livelli: come prima cosa un livello “filosofico”. Limongelli produce immagini “esposte alla luce”, ovvero quella qualità unica e intrinseca che conferisce loro la dignità di chiamarsi effettivamente “fotografie”. Tutto ciò che viene stampato attraverso sistemi non convenzionalmente fotografici ha più a che fare con le arti grafiche e dà origine a tutti gli effetti ad un’immagine e non a una vera e propria fotografia.
Il secondo livello è legato alla coerenza. È fondamentale poter tornare ad avere una produzione coerente con le produzioni analogiche precedentiseppur partendo da supporti digitali: è il caso che si presenta ad esempio a collezioni museali o archivi.
Il terzo livello è temporale: la stampa fotografica in senso canonico ha superato la prova empirica del tempo nell’ambito del bianco e nero. Le fotografie realizzate in questo modo hanno svariati decenni di vita e sono ancora li, a testimonianza effettiva di una resistenza innegabile. A differenza della stampa digitale, che deve essere ancora sottoposta alla prova del tempo, non necessita di alcuna certificazione.
C’è infine un quarto livello, quello legato all’unicità: in Camera Oscura si producono “pezzi unici”, cioè tanti originali, differenti l’uno dall’altro anche se provenienti dallo stesso negativo o file.
Questo è il valore aggiunto che deriva da un procedimento artigianale, il valore dato dal lavoro dell’uomo e dalla sua esperienza. La certificazione più autentica, infatti, è data sicuramente dalla tradizione di un mestiere fatto a regola d’arte.
All’indomani del confronto sulle varie tecnologie di stampa, svoltosi alla Triennale di Milano*, Giulio Limongelli scrive: “Prima di tutto l’uomo: scegliendo, in un’era digitale, di continuare a stampare in Camera Oscura con il Digingranditore, ho deciso di porre al centro l’uomo con le sue abilità, di mettere la tecnica davanti alla tecnologia, l’artigianalità al di sopra dei processi semi-industriali. Non si tratta di un rifiuto della tecnologia, ma solo di una fusione tra tradizione e innovazione: la mia è una retro-innovazione.
Continuo lungo questa strada con un sistema di stampa che posso affermare essere una vera forma di artigianato digitale, un sistema in cui la parte prevalente è quella artigianale rispetto a quella digitale e dove il valore aggiunto è dato dal lavoro dell’uomo, dal suo cuore e dalla sua passione.”
Se dunque non si può pensare che le fotografie realizzate in Camera Oscura possano diventare dei prodotti di massa, bisogna partire dal presupposto che in ogni caso è proprio in Camera Oscura che si produce la fotografia.
In un mondo dove sembra spesso che l’innovazione stia fagocitando la tradizione e un “saper fare” ormai noto a pochi, l’esperienza di Giulio Limongelli e del suo Digingranditore risalta e prende forma “…come una piccola magia che integra digitale e analogico…”, così come l’ha definita Settimio Benedusi.
Una “retro-innovazione”, come la descrive Limongelli, a sottolineare la natura di una novità che guarda alla tradizione, di un progetto che scaturisce e prende forma dall’incontro tra due mondi e che, grazie alla sua natura contemporanea, permette di cogliere il meglio dal punto di vista tecnico ed estetico dal passato e dal presente.
* I contenuti presenti nel seguente contributo sono stati tratti da “La Camera Oscura al passo con i tempi”, Tavola Rotonda organizzata da 6Glab – Il Laboratorio delle idee di Seigradi – e promossa da AFIP International alla Triennale di Milano. Un appuntamento dal titolo evocativo, durante il quale si è discusso con esperti della stampa analogica e digitale dello stato dell’arte nella stampa fotografica tra tradizione e contemporaneità. Alla presenza di altri relatori importanti, come Roberto Berné, Diego Locatelli e Giancarlo Vaiarelli, di un moderatore d’eccezione come il fotografo Settimio Benedusi e di un correlatore come Denis Curti, con uno speciale punto di vista sul collezionismo fotografico, Giulio Limongelli ha parlato della sua esperienza e del suo particolare punto di vista nell’ambito della stampa analogica e del rapporto con le nuove tecniche digitali. Per maggiori informazioni su Giulio Limongelli e la sua attività: http://www.studiofineart.it/
a cura di 6Glab