GENOVA – La donna, l’ambiente, la pace, la cultura, quattro parole chiave, quattro punti tematici attorno ai quali ruota “Obey fidelity. The art of Shepard Fairey”, la mostra prodotta e organizzata da MetaMorfosi, ospitata dal 4 luglio al 1 novembre 2020 a Palazzo Ducale di Genova.
Una rassegna importante che, oltre a catapultarci nell’universo di questo artista statunitense, originario di Charleston, ripercorrendone l’evoluzione stilistica, risulta oggi quanto mai attuale. Una mostra “quasi folgorante per la puntualità argomentale e tematica” – commenta Stefano Antonelli che con Gianluca Marziani ne è il curatore.
Verrebbe quasi da dire una mostra “necessaria” in questo preciso contesto storico e alla luce di molti avvenimenti che hanno segnato gli ultimi mesi. Come sottolinea Pietro Folena, presidente di MetaMorfosi, “aprire questa mostra dopo la pandemia è un atto di coraggio e di speranza e, in qualche modo, un impegno per un mondo migliore”.
L’esposizione, molto analitica, propone un nucleo di una settantina di opere accuratamente selezionate dai due curatori, tra le innumerevoli prodotte da Shepard Fairey. Tra queste sicuramente quelle più iconiche, come Hope, in cui Obey raffigurò nel 2008 il futuro Presidente degli Stati Uniti Barak Obama, il quale apprezzò particolarmente il gesto spontaneo dell’artista, tanto da dichiarare,una volta eletto: “Ho il privilegio di essere parte della tua opera d’arte e sono orgoglioso di avere il tuo sostegno”, passando per quelle dedicate ai grandi protagonisti delle lotte civili e antirazziste, come nel caso di Angela Davis, figura fondamentale per il movimento afroamericano degli anni Settanta e uno dei soggetti preferiti dell’artista, fino ad arrivare alla recentissima opera Angel of Hope and Strength, omaggio a infermieri e medici, eroi nei giorni del Covid-19.
Messaggi militanti, utopie sociali, visioni pacifiste diffuse attraverso la strategia della “propaganda”
Le tematiche trattate in mostra appartengono alla letteratura di Obey già da moltissimo tempo, – come rammenta Stefano Antonelli – sono concetti che “hanno avuto una gestazione all’interno degli ambienti più riflessivi, più sensibili, ma Obey è stato però in grado di realizzare un’efficace ‘messa in rappresentazione’, una vera ’messa in scena’ di questi temi, attuando strategie mirate, affinché potessero essere acquisiti dall’immaginario pubblico, diventando anche una necessità dell’agenda politica di trattarli”.
Il messaggio militante e il lavoro di Obey, in prospettiva sociale e politica, “intesa in senso greco di politikòs, di polis, di condivisione, che partecipa alla costruzione sociale – spiega Antonelli – passa attraverso una strategia precisa che va chiamata esattamente come deve essere, ovvero ‘propaganda’”. Obey utilizza, consapevolmente e miratamente, lo stesso sistema propagandistico in auge negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso. Ma la sua straordinaria capacità consiste, non solo nell’attuare questo processo in maniera capillare e del tutto individuale, (attraversa letteralmente l’America attaccando poster), ma soprattutto nel riuscire “a trasformare e ribaltare un termine che ha una vocazione negativa – appunto ‘propaganda’, intesa come esercizio del convincimento per ragioni non comuni, per vantaggi non di tutti e uso spregiudicato della comunicazione – in un messaggio positivo. Nell’arte, a differenza della filosofia, della religione, della letteratura, le idee hanno bisogno di un regime del visibile, di uno stile definito, e quale mezzo migliore se non l’utilizzo delle grafiche del Costruttivismo russo”. Insomma l’idea di Obey è quella di usare un mezzo populista come la propaganda per un buon fine collettivo.
“Quello di Obey – puntualizza Gianluca Marziani – è un caso di ‘propaganda etica’, che ha il preciso scopo di affrontare tematiche sociali e di grande presa. Obey è figlio dell’America Pop, cresce come generazione in quell’America che viene dalla grande scuola degli anni ’70, è stato però molto bravo nel realizzare un cortocircuito urbano e comunicativo. E’ riuscito – continua – a mettere in dialogo elementi della propaganda storica del ‘900, anche quella dei paesi latino americani, con altri appartenenti alla cultura grafica internazionale, partendo dal Bauhaus, passando per il Futurismo e il Costruttivismo russo. In questo senso, Obey è colui che ha risolto – ovviamente in senso ironico – il tema della Guerra Fredda, ha messo insieme comunisti e capitalisti, il Pop americano e la cultura russa di epoca leninista e stalinista”.
Cambiare il mondo con un pezzo di carta stampata
Obey è sicuramente inquadrabile nell’ambito della Street art, di cui è però un rappresentante unico, ‘sui generis’. Utilizza un linguaggio molto codificato che non rientra propriamente nelle metodologie dell’arte di strada.
“Elemento cardine della sua arte – afferma Marziani – è la carta. Obey inoltre sfrutta la strada non tanto come luogo di esercizio grammaticale, nella modalità dei graffitisti, ma come urlatoio mediatico, come schermo, come cinema. Mette in relazione elementi cartacei preesistenti, un po’ come nel decollage di Rotella, per creare nuove soluzioni semantiche”.
Nel lavoro dell’artista statunitense la grafica è dunque l’elemento cardine, così come la sua manipolazione. “Centrale nell’arte di Obey è infatti l’utilizzo di Photoshop” – spiega Antonelli – grazie al quale arriva a un lavoro di stratificazione, organizzato dunque non in uno spazio orizzontale, ma in profondità”. Obey si fa carico dell’utopia di “cambiare il mondo con un pezzo di carta stampata”. “Idea non proprio peregrina – precisa – se pensiamo che nel 1517 Lutero diede vita a una rivoluzione proprio affiggendo un volantino sul portone di una chiesa”.
Il punto è mettere a disposizione dello spazio pubblico idee che possano stimolare e far riflettere.
È quindi assodato che il ruolo della comunicazione assuma per un artista come Obey una rilevanza fondamentale. “E’ vero che l’arte è di per sé intrinsecamente comunicativa – fa notare Antonelli – ma mai come ora, in particolare nel caso di Obey o Banksy, ci si imbatte in un’arte ‘disintermediata’, ovvero che non ha bisogno appunto di un’intermediadiazione e di ulteriori chiarimenti intellettuali, perfettamente in linea con i tempi, con l’uso della rete e dei social network. Un’arte che produce immagini immediate, portatrici di una comunicazione ‘persuasiva’, che entra quasi in concorrenza con la pubblicità stessa. Conta il messaggio e il medium, questo ci riporta alla locuzione famosissima di Marshall Mc Luhan ‘Medium is the Message’”.
Banksy e Obey, due artisti che hanno destabilizzato il sistema dell’arte
Come osserva Marziani “Obey è forse il primo artista nella storia dell’arte recente che per costruire una sua mostra ha messo insieme collezionisti come studenti, impiegati, gente comune che ha semplicemente comprato una stampa a 100/200 euro, ma anche meno, e collezionisti milionari. Una modalità questa che va a scardinare la filiera del sistema dell’arte dal basso. Obey, come pure Banksy, sono artisti che hanno veramente destabilizzato questo sistema. Non è un caso che Sotheby’s abbia voluto in asta la ‘Ballon girl’ di Banksy, grazie alla quale ha raggiunto un momento forse tra i più importanti degli ultimi dieci anni”.
“Questi artisti – sottolinea ancora – hanno messo in moto un sistema molto più fluido di quello tradizionale. Un mondo ‘hardware’ si scontra con un mondo ‘software’. Il mondo hardware è rappresentato dal passato e appesantito da una gestione complicata e lenta, e che soprattutto dopo il Covid e qualche mese di stop finanziario globale, sta completamente crollando. Infatti, molte grandi gallerie stanno chiudendo le loro sedi a Londra. Quello software è rappresentato da artisti che invece, Covid o non Covid, producono, vendono, comunicano, girano, si muovono. E questo fa la differenza”.
Viene però spontaneo domandarsi se musealizzare la Street art possa suonare come una sorta di contraddizione. Per Antonelli si tratta solo di una apparente incoerenza che in realtà invece “ci permette di ripensare il ruolo stesso del museo. A Palazzo Ducale attualmente è possibile vedere un’unica opera di Monet, le Ninfee, e stare 5 minuti a contempalre questo capolavoro che è di fatto ‘storia’, quella con la ‘S’ maiuscola. In questo caso il museo si fa agente della storicità. Nella parte dedicata a Obey il museo diventa un luogo dove riflettere su questa comunicazione immediata, che non vuol dire superficiale e senza spessore, e si fa carico di un ulteriore e differente esperienza”.
“Non ho mai creduto nella contraddizione di portare la street art all’interno di un museo – afferma Marziani – si tratta piuttosto di una ‘seconda condizione’. È vero che l’arte nata per strada, realizzata su un muro, non si può portare in museo perché logisticamente impraticabile. Ma nel caso specifico di Obey e Banksy questa problematica del graffitismo storico non si pone. Sono artisti che operano su una dimensione cartacea, serigrafica, seguendo lo stesso processo di Andy Warhol. E noi Warhol lo guardiamo nei musei”.
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Vademecum
Obey fidelity. The art of Shepard Fairey
4 luglio – 1 novembre 2020
Sottoporticato – Palazzo Ducale Genova
da martedì a domenica, ore 10-19
lunedì chiuso
la biglietteria chiude un’ora prima
Biglietto intero 8€ – ridotto 6€
bambini e ragazzi dai 6 ai 14 anni 3€
giovani fino a 27 anni compiuti ogni venerdì dalle ore 14 5€
In vendita presso la biglietteria di Palazzo Ducale e online su www.vivaticket.it