VENEZIA – Il riallestimento del Poema della vita umana di Giulio Aristide Sartorio a Ca’ Pesaro si presenta come un atto di riflessione istituzionale su una delle eredità figurative della prima Biennale del Novecento (1907): un ciclo pittorico pensato per uno spazio effimero e celebrativo, che oggi si riattiva in un contesto museale profondamente mutato. L’intervento curatoriale di Matteo Piccolo e Elisabetta Barisoni sceglie consapevolmente di non attualizzare l’opera, ma di metterla in tensione con il tempo storico che l’ha prodotta, restituendole densità e ambiguità.
Realizzato nel 1906-1907 su incarico del segretario generale della Biennale, Antonio Fradeletto, il ciclo decorativo si colloca all’interno del progetto, allora ancora instabile, di una Biennale capace di unire arte, mito nazionale e diplomazia culturale. Il risultato, articolato in quattordici tele monumentali, supera i 240 metri quadrati e si pone come sintesi di simbolismo mediterraneo e aspirazioni nordico-decadenti.
Costruzione simbolica e retorica del sublime
Le quattro grandi composizioni orizzontali — Luce, Tenebre, Amore, Morte — costituiscono l’ossatura narrativa di un’opera che rifiuta l’ordine narrativo lineare e si organizza per blocchi tematici, affiancati da dieci teleri verticali che accentuano la retorica dell’enunciazione simbolista. Le immagini procedono per accumulazione e interferenza: il mito classico viene frammentato e ricombinato, perdendo coerenza narrativa ma guadagnando in densità allegorica.
Nella scena di Tenebre, ad esempio, la proliferazione dei corpi e la dinamica circolare delle figure indicano una crisi del soggetto e della visione; non c’è più una centralità iconica, ma una dispersione energetica che sfiora l’astrazione. Lì Sartorio introduce anche una tensione biografica, indirizzando un attacco implicito al sistema culturale che lo aveva marginalizzato, trasfigurando in pittura una polemica intellettuale. La scena di Morte si configura come un punto di rottura: Thanatos irrompe in uno spazio già destabilizzato da presagi (Ypnos) e forze telluriche (le Arpie), che destabilizzano qualsiasi idea di destino ordinato.
Dal monumento alla collezione: il difficile passaggio
Il trasferimento del ciclo a Ca’ Pesaro nel 1909, per volontà di Vittorio Emanuele III, segna un passaggio cruciale: l’opera, nata come decorazione effimera per un evento espositivo, viene musealizzata e consegnata alla dimensione della collezione permanente. La mostra del 2025 non si limita a riproporne la visione d’insieme, ma ne problematizza l’apparato storico e il dispositivo simbolico, introducendo nuclei documentari e opere coeve che ne ridefiniscono i parametri di lettura.
Il confronto con lavori come il Pensatore di Rodin e La bagnante di Max Klinger, entrambi presenti nell’Esposizione del 1907, evidenzia le frizioni tra il decorativismo teatrale di Sartorio e la tensione plastica, più contenuta ma incisiva, della scultura mitteleuropea. Il loro inserimento nel percorso serve a circoscrivere la specificità di un linguaggio, quello sartoriano, che in quegli stessi anni cominciava già a segnare il passo.
La materia del restauro e il corpo dell’opera
L’ultimo restauro del ciclo, realizzato tra il 2018 e il 2019 con il sostegno di Chanel tramite Art Bonus, ha rivelato una struttura tecnica ibrida, coerente con la necessità di esecuzione rapida: cera, olio di papavero, acquaragia, secondo una formula attestata anche dalle analisi del DAIS – Università Ca’ Foscari. La superficie pittorica si è rivelata fragile, stratificata, in costante tensione tra impeto gestuale e costruzione allegorica.
La documentazione scientifica raccolta in quell’occasione viene esposta non come semplice supporto informativo, ma come parte integrante della mostra.
Altre visioni, altre mitologie
La seconda sezione della mostra apre una frattura rispetto al blocco iniziale: i paesaggi di Sartorio, privati dell’enfasi simbolica, rivelano un diverso registro emotivo. Qui la natura diventa luogo di proiezione interiore, ma senza gli apparati allegorici del Poema. È un ritorno a una pittura più silenziosa, più meditativa, che testimonia la complessità del suo autore e lo svincola da una lettura univocamente simbolista.
Segue una selezione di opere internazionali che rilegge in chiave transnazionale le tensioni ideologiche della Biennale d’inizio secolo. In particolare, il confronto con la scuola belga, tedesca e scandinava mette in luce come il simbolismo si declini in forme disparate: più intime, più simboliche, più esoteriche rispetto all’apparato retorico italiano.
La linea veneziana e il modernismo europeo
La sezione conclusiva interseca la storia del ciclo con quella della stessa Ca’ Pesaro: l’ingresso nel 1910 di Giuditta II di Gustav Klimt rappresenta un punto di svolta, non solo per le collezioni, ma per l’intera idea di modernità a Venezia. Se il Poema segnava ancora una forma d’arte monumentale, epica, legata all’idea ottocentesca del ciclo decorativo, l’opera di Klimt introduce la frattura, la sensualità ambigua, la potenza sintetica della linea secessionista.
La mostra, nella sua articolazione, evita qualsiasi semplificazione cronologica e si pone come uno strumento di lettura della nascita dell’arte moderna italiana non in termini di evoluzione lineare, ma di contraddizioni, coesistenze e slittamenti.