ROMA – L’artista sudafricano William Kentridge – classe 1955, noto per aver raggiunto sin dal 1997 fama internazionale grazie ai collage, le incisioni, disegni a carboncino, alle sue sculture, alle animazioni, ai film ambientati in zone industriali e minerarie di Johannesburg, emblema di abusi ed ingiustizie, dove Kentridge unisce politica e poetica trattando argomenti come l’apartheid, il colonialismo, il totalitarismo, accompagnati da parti oniriche, liriche, ironiche – durante il lock down si è chiuso nel suo studio dando vita a un documentario dal titolo “Self portrait as a coffee pot”, letteralmente “Autoritratto come caffettiera”, dove si riprende e dialoga con un altro se stesso mentre produce i suoi disegni in divenire, li rimescola, li sparpaglia e li ricongiunge, spiegando al pubblico il significato sottile del loro farsi e disfarsi, i loro punti nevralgici, il loro perfezionarsi, creando e scomponendo una materia che nelle sue mani diventa guizzante e viva.
Con un meticoloso e continuo disegnare, cancellare e ridisegnare William Kentridge si guarda nello specchio dal quale gli risponde il volto di una persona diversa, ora una donna, ora un ragazzo, mentre una vena pazzerella aleggia e rende ironica l’esposizione della sua esperienza, della sua storia, del suo lavoro, perfino l’enumerazione degli infetti da Covid.
Kentridge è in continua creazione, la sua arte in incessante divenire costruisce sagome che stupiscono, lasciando spazio a suggestioni e interrogativi.
Un gioco che spiazza e affascina, lo seguiamo parlare di colonialismo e apartheid, di capacità di rendere somigliante un volto disegnato al vero soggetto, della sua insoddisfazione nel non raggiungere con la matita la funzione dello specchio, con una caustica arguzia che fa sembrare un po’ folle la realtà e le sue creazioni. Un estro inimitabile.
Regia di William Kentridge con William Kentridge. Una serie Genere Documentario -Sudafrica, USA, 2022,