Emerge e si afferma all’inizio XXI secolo, un’idea di arte che pone al centro delle proprie riflessioni la produzione e collocazione sistematica di (perlopiù) immagini nello spazio pubblico, e che sembra agire secondo un paradigma che potremmo descrivere così: per fare una cosa bella di cui tutti possono godere non devo chiedere il permesso. Un certo approccio determinista tende a far risalire questa idea di arte al writing (che colloca segni e non immagini nello spazio pubblico), tuttavia la prospettiva storico-artistica ci mostra come essa sia esito di interazioni molto più complesse che coinvolgono sicuramente il writing come altre esperienze e idee di arte che vanno dal Dada al Nouveau Realisme, dall’illustrazione alla Transavanguardia e molto altro. Ridurre l’idea di street art alla sua determinazione dal writing appare semplicistico ed epistemologicamente falso.
In opposizione alla (quasi) intera storia dell’arte moderna, questa idea di arte non si presenta con la volontà di affermare un nuovo linguaggio, non ci consegna una nuovo progetto visivo di rappresentazione del mondo, come hanno fatto l’astrazione, cubismo, pop art, ecc ecc, piuttosto si presenta come un agire artistico che sembra avere anche fare con la capacità delle immagini di agire piuttosto che di dire e che realizza un nuovo modo di produzione dell’arte e di esistenza stessa dell’opera d’arte, una sorta di avanguardia modale. Un cambio di paradigma che è possibile rintracciare in una nuova prospettiva nel rapporto tra uomini e cose elaborata da Albert Bandura, che egli chiama agency, e che traduciamo in italiano come agentività. Sembrano essere queste due caratteristiche a connotare maggiormente questa idea di arte: agentività e cambio radicale del modo di produzione e di esistenza dell’arte. Ma soprattutto l’agentività di questa idea di arte sembra realizzarsi nell’idea stessa di esistere nello spazio pubblico. E il museo? La galleria? Il museo diventa il luogo di studio, analisi e condivisione culturalmente mediata di queste idee, del loro agire e del conseguente prodotto quando emergono come culturalmente (che nel nostro mondo equivale a economicamente) rilevanti per la società. La galleria continua a fare il suo mestiere di interfaccia con il mercato per quegli artisti che sono interessati a questo aspetto. Il progressivo rinnovarsi dell’arte è sempre inclusivo e mai esclusivo.
Ovviamente l’arte nello spazio pubblico non è una novità, tuttavia l’inizio del XXI secolo vede un’intera generazione di giovani artisti occidentali muoversi all’unisono verso la sistematizzazione di questa idea, in particolar modo orientata alle immagini. È proprio questa sistematizzazione della presenza di immagini nello spazio pubblico che ne costituisce l’agentività e allo stesso tempo la rende agentiva. Basta pensare che nel museo il modello di fruizione dell’arte è quello contemplativo, cosa puoi fare nel museo davanti all’opera oltre contemplarla? Nulla. Mentre nella dimensione pubblica il modello di fruizione dell’opera è decisamente interazionale, la puoi modificare, contestare, cancellare, conservare, difendere. Cosa puoi fare nello spazio pubblico davanti all’opera oltre contemplarla? Molto. Oltretutto si tratta della presenza diffusa e sistematica di un nuovo tipo di immagini nello spazio pubblico, che, in termini di agentività visiva, siamo abituati a conoscere come abitato solo dall’immagine pubblicitaria, segnaletica e toponomastica. Si tratta di immagini ermeneutiche collocate da soggetti che vanno alla conquista del territorio dove regna l’immagine finalistica collocata dal mercato. Da questa prospettiva sembrerebbe essere molto di più di un semplice tocco di colore e creatività.
La sistematizzazione dell’opera d’arte nello spazio pubblico pone questioni e stabilisce relazioni che mai ci eravamo posti e mai avevamo immaginato nei confronti dell’arte. Tra tutte, sembra destituire l’idea Hegeliana che collega l’arte all’assoluto, rendendola sacra, e quindi preziosa, e quindi costosa. Mettendola in strada, collegandola all’ordinario delle nostre vite, questi artisti scollegano l’arte dalla sacralità, rendendo l’agire artistico un gesto di umanità, proprio la materia di cui questo tempo sembra potersi privare. La deprivano dello statuto di oggetto, e in questo modo la rendono non disponibile al mercato. Tuttavia, alcune di queste opere e di questo agire, scivola nella sacralità, gli artisti si espongono al mercato mettendo in luce ciò che per alcuni sono contraddizioni e paradossi, e di questi aspetti si discute attivamente nelle comunità artistiche e in quelle degli osservatori. Tuttavia, è da rilevare che presso gli artisti, l’insopportabilità di queste contraddizioni emerge solo in coloro che non vengono sacralizzati, non diventano preziosi, e quindi costosi. Fortunatamente disponiamo di un’eccezione che in questo caso, fa la regola: Blu, che potrebbe diventare ricco domani, una ipotetica tela di Blu 200×150 cm costerebbe sui 100.000€ ad oggi, solo che Blu da tempo ha scelto di non fare mostre, ovvero di non vendere quadri. E vive in povertà e rinuncia, almeno dalla prospettiva media.
Delle tante proprietà ascrivibili all’idea di spazio pubblico, quella che questa pratica artistica sembra intercettare è la sua proprietà comunicazionale, questi artisti pubblicano il loro lavoro, comunicandolo attraverso un canale, questo canale è lo spazio pubblico, i social network semplicemente estendono questa azione al nuovo spazio pubblico digitale. Nell’intercettare la dimensione comunicazionale dello spazio pubblico, gli artisti ne rivelano un aspetto inedito della sua natura intrinsecamente ostensiva, al punto che è possibile affermare che la fase di sistematizzazione delle pratiche artistiche di collocazione di immagini nello spazio pubblico ne determina, di fatto, lo statuto di spazio espositivo dando vita ad un nuovo statuto dello spazio pubblico: lo Spazio Espositivo Pubblico. Se pensiamo alla comunicazione come agire sociale – come suggerisce Jurgen Habermas – agli “atti linguistici” suggeriti da Austin, forse è possibile provare a parlare di “atti d’immagine” e questo renderebbe possibile avventurarsi verso una ipotetica prospettiva comunicazionale dell’arte che potrebbe condurci verso una vera e propria teoria comunicazionale dell’arte. L’insieme di questi elementi costituirebbe un paradigm shift, che attraverso l’idea di street art, sembra consegnarci, non una nuova idea di rappresentazione del mondo, ma un nuova idea di mondo.