BOLOGNA – Nel sistema dell’arte americana del secondo dopoguerra, Louise Nevelson occupa una posizione liminale: è tra le prime donne ad affermarsi nel panorama della scultura contemporanea, elaborando un linguaggio formale autonomo, costruito attraverso assemblaggi monocromi e materiali residuali.
La sua pratica intreccia gesto artistico ed esperienza personale, anticipando due questioni oggi centrali: la costruzione della memoria attraverso la materia e l’emancipazione femminile come forma di resistenza. La scultura diventa così un terreno operativo in cui la trasformazione dello scarto coincide con l’elaborazione simbolica di un’identità autonoma, fuori dai codici dominanti della storia dell’arte.
La mostra allestita a Bologna, curata da Ilaria Bernardi e ospitata da Palazzo Fava dal 30 maggio al 20 luglio 2025, propone un’esplorazione strutturata delle principali tipologie compositive dell’artista: un’analisi che si sviluppa nelle sale del piano nobile, affrescate dai Carracci, e che privilegia un’impostazione tematica e morfologica.

Autonomia come scelta, arte come affermazione
Il percorso artistico di Nevelson prende forma a partire da una rottura personale e culturale. Nel 1941, decide di separarsi dal marito e di abbandonare il ruolo tradizionale di moglie e madre per dedicarsi interamente alla scultura. Un gesto questo, che in quegli anni, assume il valore di una dichiarazione programmatica. L’autonomia viene perseguita attraverso il lavoro, la materia e la costruzione di una presenza artistica riconoscibile e coerente.
Negli anni Cinquanta, le sue opere entrano nelle collezioni di istituzioni come il MoMA di New York. Nel 1962 viene selezionata per rappresentare gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia. Cinque anni dopo, il Whitney Museum le dedica una retrospettiva. Non si tratta solo di affermazione individuale, ma di un posizionamento strutturale in un sistema che raramente ha incluso figure femminili nella scultura di ricerca.
Tipologie e strutture: la mostra nelle sale di Palazzo Fava
Il percorso espositivo si articola in cinque ambienti. L’apertura è affidata alle sculture autoportanti nere degli anni Cinquanta e Sessanta, strutture verticali simili a librerie chiuse, composte da frammenti di oggetti riconoscibili ma privati di funzione. In queste forme silenziose si delinea un primo vocabolario della costruzione.
Seguono le cosiddette “porte”, superfici sospese a parete dove frammenti di sedie e oggetti d’arredo generano dispositivi visivi liminari, capaci di evocare spazi impraticabili piuttosto che soglie da attraversare. La ricerca si estende poi alle composizioni piatte in legno nero, costruite con caratteri tipografici dismessi. Qui la scultura assume una dinamica orizzontale o modulare, come in Tropical Landscape (1975), City Series (1974), Sky Totem (1973), in cui affiorano suggestioni paesaggistiche astratte.

Una sezione a parte è dedicata a collage e assemblaggi di medio formato, realizzati con materiali non convenzionali come carta abrasiva, lamina metallica o cartone. L’approccio processuale emerge con forza: l’assemblaggio si configura come trasfigurazione, secondo la logica definita da Carla Lonzi di “distruzione-trasfigurazione”.
Chiude il percorso una selezione di acqueforti del 1953 e serigrafie del 1975, raramente esposte, accompagnate da una video-intervista registrata nel 1978 in occasione dell’inaugurazione della Chapel of the Good Shepherd a New York. L’opera segna un punto di svolta nella pratica dell’artista: dalla compattezza nera si passa alla rarefazione del bianco, a una luce che attraversa la materia e ne amplia le possibilità simboliche.
Trasformazione alchemica e forza simbolica
La mostra si conclude nella Sala Carracci, dove prevalgono le opere in legno dipinto d’oro. Tra queste, spicca la grande scultura autoportante The Golden Pearl (1962). L’oro, lungi dall’essere decorazione, assume valore simbolico: è il punto finale di un processo di trasmutazione. Lo scarto diventa reliquia, la materia opaca si fa luminosa. In questo passaggio, Nevelson riconfigura la relazione tra gesto artistico e sapere arcaico, riportando nella scultura un’energia rituale, pre-logica, non addomesticata.
Louise Nevelson emerge come figura ancora pienamente presente nel dibattito visivo contemporaneo per la capacità del suo lavoro di generare interrogativi formali, materiali e politici. Le sue opere non costruiscono semplicemente forme, ma articolano una posizione: quella di chi, escludendo ogni funzione decorativa o narrativa, restituisce alla scultura il compito di incarnare un processo.
Già nel 1971, Germano Celant osservava come la pratica di Nevelson si fondasse su una rielaborazione dell’esperienza femminile rimossa dalla storia ufficiale: un sapere originario, magico, astorico, in contrasto con l’ordine razionalizzato e tecnologico della cultura maschile. I materiali impiegati – legno, carta, metallo – provengono da una dimensione marginale, ma attraverso l’assemblaggio acquistano densità simbolica, evocando pratiche rituali e trasformative.
La scultura diventa così luogo di una metamorfosi: lo scarto si fa forma, la frammentarietà diventa costruzione, l’invisibile prende corpo. È in questa dinamica che il lavoro di Nevelson continua a produrre senso.
Vademecum
Louise Nevelson
a cura di Ilaria Bernardi
30 maggio-20 luglio 2025
Orari di apertura:
Martedì-domenica, ore 10.00 – 19.00
Ultimo ingresso alle ore 18.00
Chiusura settimanale: lunedì
Biglietti:
intero: € 10,00; ridotto: € 5,00
Per informazioni sulla mostra:
Genus Bononiae – Musei della Città
+39 051 19936305; info@genusbononiae.it;
Per informazioni e prenotazioni di visite
guidate:
Opera Laboratori
+39 055 2989818;