MILANO – Esiste un confine fragile tra ciò che vediamo e ciò che ci ostiniamo a credere reale. Shirin Neshat (Qazvin, 1957) – vincitrice del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 1999, del Leone d’Argento per la Miglior Regia al Film Festival di Venezia nel 2009 e del Praemium Imperiale a Tokyo nel 2017 – artista dell’esilio e dell’ambiguità, da oltre trent’anni lavora in questa zona di attrito.
A Milano, con Body of Evidence, curata da Diego Sileo e Beatrice Benedetti, il PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea- propone un percorso che non ha nulla della classica retrospettiva: è piuttosto un viaggio dentro le crepe, i vuoti e le interferenze che segnano l’identità contemporanea. Come se ogni opera contenesse la radice dell’altra, in un continuo sprofondamento nei temi del corpo, della voce, dell’identità divisa e, soprattutto, della vulnerabilità come forma radicale di consapevolezza politica.
Il sogno come forma di resistenza
Il sogno, nella narrazione di Neshat, non è evasione: è un atto politico. Uno spazio simbolico in cui ciò che non può essere detto prende forma, in cui la censura si dissolve e la lingua dell’inconscio diventa linguaggio comune. «Tutti sogniamo. I sogni sono innocenti e non possono essere giudicati», afferma l’artista. Ma è proprio questa apparente innocenza a renderli potenzialmente sovversivi: i sogni sono universali, e dunque condivisibili, trasversali, destabilizzanti.
Nelle opere più recenti, come Roja o Land of Dreams, Neshat trasforma il sogno in strumento narrativo, ma anche in meccanismo di scavo: i sogni diventano terreno di indagine antropologica, culturale, persino spionistica. L’elemento fantastico non cancella il dato politico, semmai lo riposiziona: lo sposta dal piano della cronaca a quello del mito, della visione, della soggettività più profonda.

Il corpo come superficie politica
Fin dall’inizio, Neshat ha eletto il corpo a campo visivo e campo di battaglia. In Women of Allah (1993-1997) i volti e i corpi femminili velati si fanno palinsesto: scrittura, poesia, militanza, contraddizione. La bellezza non è mai neutra, e nemmeno la violenza: convivono nello stesso sguardo, nella stessa immagine. È l’estetica come provocazione, come atto di disturbo.
Questa tensione si amplifica in The Book of Kings (2012) – installazione concepita in seguito alla nascita del Green Movement iraniano, il movimento sorto in reazione ai brogli elettorali che nel 2009 hanno visto prevalere Ahmadinejad in Iran – dove il corpo diventa letteralmente luogo della Storia: le calligrafie che lo attraversano mettono in dialogo epica e attualità, eroismo antico e lotta contemporanea, mostrando come la narrazione del potere sia sempre una questione di rappresentazione.
La voce, il silenzio, la frattura
Nelle video-installazioni, la dimensione sonora è altrettanto centrale. In Turbulent, la contrapposizione tra voce maschile e voce femminile non è semplicemente un gioco di ruoli, ma un duello simbolico: chi ha diritto di esprimersi, chi resta fuori campo, chi può trasformare il canto in azione? E in The Fury, più recente, il silenzio diventa grido interiore, testimonianza di una violenza non solo fisica ma mentale, esistenziale.


Oltre il dualismo, dentro la frattura
Tutto il lavoro di Neshat mette in crisi le opposizioni binarie: Oriente e Occidente, uomo e donna, sogno e realtà, appartenenza ed esilio. E lo fa non con l’intento di riconciliare, ma di mostrare la frattura, di sostarvi dentro. In Soliloquy (1999), l’artista stessa si mette in scena in un doppio viaggio, tra una città mediorientale e una metropoli occidentale: due spazi, due identità, nessuna sintesi.
In questa tensione irrisolta risiede la potenza politica del suo lavoro: non offrire risposte, ma disarticolare le certezze. Non rappresentare l’Iran, ma interrogare ogni forma di appartenenza. Non costruire narrazioni lineari, ma creare spiragli da cui possa filtrare ciò che normalmente resta invisibile.
Nel buio delle installazioni, tra le voci spezzate e i sogni raccontati, Shirin Neshat ci consegna un lascito raro: la possibilità di abitare la contraddizione, di restare nell’incertezza, di guardare il trauma senza estetizzarlo. E forse, proprio in questa scelta etica ed estetica, si annida il senso profondo della sua opera.
Vademecum
Shirin Neshat
BODY OF EVIDENCE
A cura di Diego Sileo e Beatrice Benedetti
28.03 – 08.06.2025
PAC Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano
T 02 88446359
pacmilano.it
via Palestro 14 – Milano
Orari
Martedì, mercoledì, venerdì, sabato e domenica 10 – 19:30
Giovedì 10 – 22:30
Lunedì chiuso
Aperto 20,21,25 aprile, 1° maggio, 2 giugno
Biglietti
Intero € 8 / ridotto da € 6,50 a € 4