Dal Sahel all’Amazzonia, la fotografia come geografia della dignità: il lascito radicale di un maestro del bianco e nero
PARIGI – La scomparsa di Sebastião Salgado priva la fotografia mondiale di una voce che ha saputo trasformare la realtà in racconto universale. Il fotografo brasiliano si è spento a Parigi a 81 anni, lasciando un corpus visivo che continua a interrogare il presente. Più che un autore di immagini, Salgado è stato un costruttore di memoria collettiva, un autore che ha scelto la lentezza, la profondità, l’ascolto.
Lavoro, migrazione, natura: i temi ricorrenti della sua opera si sono intrecciati in una visione coerente, rigorosa, incentrata sul rispetto per l’altro. Ogni progetto, da Workers a Genesis, passando per Exodus e l’Instituto Terra, racconta l’umanità nei suoi gesti essenziali, con una dedizione rara e una coerenza etica esemplare.
Dall’economia all’immagine: un cambio di strumento, non di visione
Laureato in economia e inizialmente attivo presso la Banca Mondiale, Salgado ha deciso di raccontare il mondo non più con i dati, ma con le fotografie. L’Africa è stata il suo primo orizzonte visivo, la fotografia un atto rivelatorio. Dal 1973 in poi, ha costruito una carriera che ha ridefinito i confini del reportage sociale, coniugando rigore formale e empatia radicale.
Ogni serie ha richiesto anni di lavoro. Ogni soggetto è stato avvicinato con pazienza, attenzione, partecipazione. Dai minatori brasiliani ai cercatori di sale in India, dalle comunità indigene dell’Amazzonia ai rifugiati del Medio Oriente, Salgado ha attraversato il pianeta come un viaggiatore consapevole, mai come un semplice osservatore.

Un’estetica della presenza, non della sofferenza
Le fotografie di Salgado si distinguono per un’etica dello sguardo che rifugge il pietismo. Gli esseri umani ritratti sono presenti, non ridotti a simboli o a emblemi della miseria. I loro volti parlano di forza, resistenza, lucidità. Le immagini di Workers – miniere, cantieri, saline – diventano icone del lavoro inteso come costruzione del mondo. Il bianco e nero esalta le linee, ma soprattutto rende la realtà essenziale, scabra, autentica.
Salgado ha restituito centralità ai soggetti più marginalizzati, ma sempre con uno sguardo orizzontale, paritario. Le sue immagini costruiscono una geografia della dignità, uno spazio in cui il visibile non è mai banale, ma necessario.
Il passaggio all’azione: piantare alberi per riparare il mondo
Dopo il trauma vissuto nei campi profughi del Ruanda, Salgado ha sentito il bisogno di un nuovo tipo di gesto. Insieme alla moglie Lélia Wanick, ha avviato un imponente progetto di riforestazione in Brasile: è nato così l’Instituto Terra, che ha restituito biodiversità a oltre 600 ettari di terra degradata, piantando più di due milioni di alberi.
Questo impegno ambientale non è stato separato dalla fotografia, ma il suo completamento. Dove lo sguardo aveva mostrato, l’azione ha restituito. Una stessa etica – quella della cura – ha guidato entrambe le strade.
Un’eredità attiva: guardare per comprendere, comprendere per agire
Con Genesis, Salgado ha riportato al centro la relazione tra esseri umani e natura. Le immagini raccolte nei cinque continenti invitano a ripensare il nostro rapporto con la Terra, non come retorica ambientalista, ma come esigenza culturale, sociale, persino spirituale.
Il suo lavoro resta uno strumento vivo. Ci costringe a riconsiderare la nostra posizione nel mondo, ci restituisce storie che meritano di essere ascoltate, ci ricorda che la fotografia può ancora essere testimonianza, consapevolezza, impegno.
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