ROMA – Il 15 settembre 2016 è stata inaugurata a Roma la mostra dell’artista messicano Gustavo Aceves, dal titolo Lapidarium. Un intervento di dimensioni monumentali, che si snoda dall’Arco di Costantino alla Piazza del Colosseo, per arrivare fino ai Mercati di Traiano. Un “esercito” di sculture equestri che si susseguono a formare una lunga processione che, sfidando la nostra indifferenza, si impone invece al nostro sguardo per farci soffermare e riflettere su una delle questioni più attuali e pressanti di questo momento storico: l’emergenza migratoria.
Mercoledì 8 febbraio alle 17.00, presso la Sala Pietro da Cortona, ai Musei Capitolini, verrà presentato il libro “Gustavo Aceves. Lapidarium” di Francesco Buranelli, curatore di questa esposizione itinerante, di cui Roma rappresenta la seconda tappa, dopo quella inaugurata nel 2015 a Berlino, alla Porta di Brandeburgo.
ArteMagazine ha avuto l’opportunità di parlare con il professor Buranelli su alcuni aspetti legati al significato del progetto e alla complessità di questo “monumento ai vinti”, realizzato da Aceves e destinato a crescere di tappa in tappa, fino a comprendere 100 sculture, rispetto alle attuali 40.
Professor Buranelli partiamo dal titolo della mostra “Lapidarium”, un titolo particolarmente evocativo…
Il titolo si riferisce nel significato ai classici lapidari museali dove sono conservati questi frammenti, rilievi di iscrizioni antiche poi codificate dagli storici, dagli archeologi per ricostruire la storia antica. Si tratta appunto di “frammenti di storia”. Il significato rimane tale, ma nell’opera di Aceves non ci troviamo più dinnanzi a materiali architettonici e scrittori ma a sculture vere e proprie, realizzate non solo in pietra ma anche in bronzo, resina, legno e tanti altri materiali che costituiscono tutto l’insieme del lavoro. Anche queste sculture si presentano come frammenti nei quali ognuno di noi può recuperare le radici della propria storia, dunque il significato resta sostanzialmente identico.
A proposito dei differenti colori utilizzati dall’artista in queste sculture, hanno un significato preciso e a cosa fanno riferimento in particolare?
Iniziamo a dire che l’opera ha come obbiettivo quello di affrontare l’autocoscienza dei popoli, attraverso un fenomeno che è di grande attualità, come quello dei movimenti migratori, che sono una costante di tutta la storia dell’uomo, addirittura dalla preistoria fino ai nostri giorni. Logicamente ogni civiltà assumendo un ruolo primario e di largo benessere dimentica quelle che sono le origini della propria storia. Quest’opera vuole dunque ricordare che tutti abbiamo avuto una origine migratoria o anche di diaspora che, purtroppo nel secolo che si è appena concluso, è stata una delle piaghe più diffuse. Non voglio fare riferimenti proprio alla Shoa, ma anche alla diaspora del popolo armeno, del popolo curdo. Ce ne sono tante di diaspore rimaste insolute. L’artista dunque, senza riferirsi a una problematica particolare, offre spunti in modo che ognuno di noi, qualunque sia la sua origine, possa trovare dei riferimenti culturali per far si che possa identificarsi nell’opera. Detto questo, possiamo aggiungere che i colori assumono un significato molto importante perché si riferiscono ai mari che sono stati teatri di queste migrazioni. Il colore bianco si riferisce al Mar Mediterraneo, “Mare nostrum” per i latini, e invece mare bianco proprio per i popoli arabi e turchi. Il colore verde fa invece riferimento al Mar Morto, proprio per indicare quasi il colore cinereo della morte, per la legge del contrappasso è un mare dove per l’eccessiva salinità dell’acqua non si può né affondare né affogare. Rosso è il Mar Rosso e nero il Mar Nero, accostamenti questi molto più facili rispetto ai primi due. Non a caso questi quattro colori sono anche quelli dei quattro cavalli dell’apocalisse, vale a dire il libro dell’Apocalisse che indica quelle che saranno le malvagità dell’umanità che porteranno alla fine del mondo. Un monito questo che Aceves lancia all’umanità di oggi per far si che tutti gli orrori commessi non vengano dimenticati, ma servano invece per recuperare uno stato di civiltà, affinché non si ripetano più.
Una mostra dunque che guarda al passato ma anche al futuro?
Diciamo che si proietta nel futuro passando però per un cogente momento critico dell’Europa dei nostri giorni. L’Italia insieme alla Grecia, cioè i paesi mediterranei sono i più coinvolti in questa operazione di accoglienza, conseguenza della forte immigrazione dai paesi del Medioriente, dell’Africa subsahariana, per cui è evidente un monito all’Europa a non mettere i paraocchi, ma di continuare ad essere il continente che ha sempre accolto tutti, svolgendo un ruolo guida nella storia dell’umanità.
Dal punto di vista iconografico l’opera di Aceves presenta un forte richiamo alla sofferenza e alla morte (forme scavate, cavalli mutilati, teschi), ma si può cogliere anche un messaggio di speranza?
Assolutamente si. Il messaggio forte è proprio di voglia di riportare l’autocoscienza dei popoli all’attenzione delle persone. Un grido che parte dal basso per scuotere gli alti scranni dei Parlamenti europei.
Un messaggio politico, potremmo dire?
Non politico, direi sociale. Perché questa è veramente una esigenza della società odierna, a tutti i livelli e anche i politici si stanno interessando fattivamente al problema e ripeto, più di tutti, i governi italiani e greci. Anche il Parlamento europeo sta finalmente affrontando seriamente la questione, sperando che si arrivi ad una risoluzione equa e dignitosa e si finisca di identificare il Mediterraneo in una fossa comune, perché questa è la realtà emersa in questi ultimi anni di immigrazione.
La mostra di Aceves è itinerante, l’artista, traendo ispirazione dalla quadriga di San Marco a Venezia, ha detto infatti che “porterà l’opera in ogni capitale dove sia ospitata una quadriga storica”
Esatto. La quadriga di San Marco perché i cavalli di Aceves si ispirano a una iconografia antica e rinascimentale, e non è una contraddizione quella di cui sto parlando. Sappiamo infatti quanto l’arte rinascimentale abbia guardato all’antico. Pensiamo ai cavalli progettati da Leonardo per Francesco Sforza a Milano, per il maresciallo Trivulzio, che poi non sono stati realizzati per varie vicissitudini storiche. Si rifacevano ai grandi cavalli dell’antichità proprio come la quadriga di San Marco a Venezia, oppure anche alla statua equestre di Marco Aurelio sul Campidoglio.
L’intento è quindi quello di toccare le grandi capitali che hanno questo background iconografico al quale sovrapporre una maggiore sensibilità verso l’accoglienza. Dopo Roma vorremmo andare in Grecia, rappresentata soprattutto da Atene, capitale odierna ma anche capitale antica. La Grecia ha realizzato i cavalli della quadriga arrivati a Venezia, che sappiamo tutti provenire da Costantinopoli, attuale Istanbul. Successivamente furono rimossi e presi da Napoleone, recuperati dal Canova e riportati ancora a Venezia. Ci sono state varie vicissitudini che hanno reso itineranti anche questi famosissimi cavalli antichi che sono poi i pochi conservati e pervenuti fino a noi. La mostra chiuderà il suo itinerario a Città del Messico.
Un valore simbolico questa chiusura in Messico
Assolutamente e di grande attualità. Non solo l’artista è messicano di nascita, anche se poi oggi vive da qualche anno in Italia, dove ha saputo unire le radici culturali preispaniche e dell’arte messicana contemporanea con quella che è la sua ispirazione, la sua grande passione verso l’arte antica e rinascimentale italiana. Questo ponte si tramuta pure in questo percorso espositivo che, credo nel 2018, oppure nel 2019 terminerà appunto a Città del Messico.
Chiudiamo con il libro che presenterà mercoledì 8 febbraio e postumo rispetto all’inaugurazione della mostra
È un volume-catalogo nel quale si presenta in grande formato e con splendide tavole fotografiche la mostra soprattutto di Roma, ma anche con tutta la ragione e tutta la elaborazione artistica di Gustavo Aceves. Mercoledì interverranno Philippe Daverio e Claudio Strinati, due noti e affermati critici d’arte e la serata verrà introdotta dall’Ambasciatore del Messico in Italia, José Guerra Abud e dal sovrintendente capitolino, il professor Claudio Parisi Presicce.
Il volume catalogo viene presentato solo ora rispetto all’inaugurazione della mostra, avvenuta a settembre. Le opere sono monumentali, vanno dai tre ai dieci metri di lunghezza e bisognava fornire un catalogo con un contesto monumentale, direi il più bello del mondo, che è quello dei Mercati di Traiano e del Colosseo, nel quale le opere venivano inserite. C’è stata quindi una campagna fotografica molto curata e una edizione altrettanto importante della Palombi editore.
Questo il motivo della data differenziata tra l’inaugurazione e la presentazione del catalogo. Inoltre la presentazione rilancerà la mostra, che resterà aperta fino al 5 marzo, un finale in crescendo dunque per far ammirare ancora questo capolavoro ai romani e ai tanti turisti che affluiscono a Roma per vari motivi.