ROMA – Ricomporre la cubatura delle Terme di Diocleziano è impresa ardua per qualsiasi opera che necessiti di un supporto d’allestimento. Riuscire ad integrarsi con quell’architettura archeologica è alchimia di sottrazioni e sospensioni, di ritmi rituali delle opere, di connessioni gravitazionali tra alto e basso, di parentele iconografiche tra pietra e immaginari.
Ebbene, tutto questo appare risolto nell’orchestra figurativa di Nicola Verlato, nel suo distribuire gli strumenti visivi dentro un allestimento essenziale, senza presunzioni troppo “architettate” e fagocitanti. Le funzioni aggiuntive scompaiono sotto l’egida dei due linguaggi che guidano l’artista: pittura da una parte, minuziosa e perfezionistica, sfida dialettica alle mitologie del Seicento ma anche coscienza sapiente delle funzioni strumentali che la tecnologia riveste; scultura dall’altra parte, altrettanto minuziosa e consapevole del piano tecnologico, un allineamento al presente in cui il software si integra ai linguaggi manuali, risolvendo la forma e sollevando l’artista dai vincoli del vacuo citare.
Qui non esistono manierismi ma semplice virtù olistica degli strumenti, cultura degli archetipi, dosaggio tra purezza manuale e limpidezza digitale. Un flusso entropico in cui le particelle materiche si dispongono nella coscienza rinascente di un dono morale, una proiezione estetica dentro una memoria che pesa e si addensa, una memoria che appartiene alla società civile, una memoria comune che risponde al nome di Pier Paolo Pasolini. E che qui ci riporta dentro una giornata diversa dalle altre, di quelle che varcano la soglia del calendario per incidersi sulle lapidi del ricordo collettivo, quando un semplice giorno si trasforma nel viaggio all’inizio della notte.
HOSTIA come vittima sacrificale. HOSTIA come un luogo (senza h) a sud di Roma, lingua sul Tirreno che una notte, il 2 novembre 1975, accolse la morte non accidentale di Pasolini, in quel fatidico Idroscalo che ha fissato la natura eterna di un luogo anonimo, accostando la sua superficie terrosa ad altre superfici capitoline della Storia.
Nicola Verlato sta lavorando da anni su questo tema che si è trasformato nella sua fertile ossessione, un diapason ritornante che lo segue come un’ombra solida in cerca di sguardi senzienti, di riflessioni postume ma anche di proposte che non siano sterili omaggi alla memoria istituzionale.
Due tele verticali ai vertici della sala, due tele rettangolari nel lato sinistro, due piccoli quadri nel lato destro, una serie di teste scultoree, una scultura sospesa e un enorme disegno a carboncino: sono questi gli strumenti figurativi di una scrittura spaziale che ritma il movimento del nostro sguardo, trovando punti di fuga e vertigini sospese, lasciando che l’archeologia delle Terme s’infiltri nei gesti crudi dell’assassinio, negli sguardi attorno al corpo deposto, nelle luci di un istante che tira fuori la sua vertigine cinematografica, il suo volume mitologico, la sua natura epocale.
HOSTIA celebra uno dei grandi artisti della sua generazione che qui a Roma affronta senza veli il più complesso e scomodo intellettuale del dopoguerra italiano. La mostra in corso (a cura di Lorenzo Canova, organizzazione MetaMorfosi) non è soltanto l’esposizione di ottime opere ma il punto di fusione tra un’urgenza morale e la potenza dei linguaggi figurativi, un occhio circolare che innalza la cronaca mentre scrive l’anomalia nascosta della Storia, la zona sismica dietro il dubbio, l’intuizione veggente oltre la “verità” del giornalismo.
Un progetto che si esprime con attitudine teatrale e pathos scenografico, come se la pittura e la scultura diventassero gli attori di una performance sui palcoscenici sanguinanti dell’espressione visiva.