Angela Catucci, pittrice nata a Lussemburgo nel 1961, nel 1971 si trasferisce a Turi (BA) dove ad oggi vive e lavora. La sua formazione artistica passa per l’Istituto Statale D’Arte di Bari, sezione Ceramica, per poi affinarsi all’Accademia di Bella Arti (sempre di Bari) sezione Scenografia. Le tecniche che predilige, nell’ambito di una ricerca delle monocromie, sono miste e vanno dallo stucco al cemento, sabbia, frammenti di varia origine, foglie d’oro e rame. Le tematiche che è solita affrontare nei suoi dipinti sono inerenti i paesaggi “informali”, “interiori” nella definizione che lei stessa ne da. Altre tematiche testimoniano il suo interesse sociale: attentati, profughi, infanzia negata.
Per I Quaderni del Bardo Edizionicura la copertina e alcuni inserti artistici, all’insegna del minimalismo e realizzati ad hoc, del volume di poesia di Pietro Romano Case sepolte (Ottobre 2020).
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“Il quadro presente nasce dall’intervista che qui si pubblica, nello specifico dalla prima domanda ‘Arte e Poesia, binari parallelo o incroci?’ e va considerato come parte integrante della risposta.
Un’intervista all’artista a cura di Alessandro Canzian
Arte e Poesia, binari paralleli o incroci?
Arte e Poesia, assolutamente incroci, la poesia come la musica sono per me fondamentali fonti di ispirazione, spesso sul retro dei miei lavori cito la frase e l’autore che che mi hanno ispirato l’opera. Anche sul retro dei disegni che ho realizzato per Case sepolte è citata la frase che mi ha ispirata.
I segni che lei inserisce nel libro Case sepolte di Pietro Romano recano un continuo dialogo tra il colore rosso e il colore nero, con tagli morbidi e lineari, mai violenti, di curve. Quale il significato di questa contrapposizione?
Ho dovuto leggere più volte il libro di Pietro Romano. La sua scrittura mi fa pensare all’arte astratta nella quale bisogna “entrare”, a volte anche fisicamente, per cogliere ciò che ad una prima lettura potrebbe sfuggire. Leggendo alcune di queste pagine sentivo emergere immagini di linee curve che a volte si interrompono bruscamente, lame che si intersecano e a volte si feriscono, volgono verso l’alto, dove il nero e il rosso rappresentano il buio interiore e il dolore (che è anche vita) lasciano spazio al bianco. In sintesi sono stati i versi di Pietro Romano a tirare fuori dalla mia mente, dal mio io interiore, i segni e i colori nei quali l’autore stesso si è riconosciuto.
Quali sono le sue origini come artista?
Ho studiato all’istituto d’Arte di Bari e poi mi sono diplomata in Scenografia presso l’Accademia di Belle Arti Di Bari. Ora sono pittrice, i miei lavori sono materico informali, sono il frutto di una lunga ricerca che mi ha portata a rappresentare “L’emozione di un frammento di realtà” che può essere un luogo, la mia terra, o un tema sociale.
Angela Catucci
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Una recensione di Case sepolte di Pietro Romano
a cura di Vernalda Di Tanna
Non privo di arguta lungimiranza, Pietro Romano compie un salto nel passato, dopo aver preso una bella rincorsa per immergersi direttamente in quelle «essenze del tempo che si ripete senza consistenza», per sporgersi inesorabilmente lì dove «Non basta il silenzio», poiché indiscutibilmente reale sembrerebbe apparire il missaggio di ombre future e macerie, scarti (o, meglio, forse mere supposizioni – nonché scavi interiori – funzionali per indagare il divenire), la cui somma rincorre la «traccia di un canto parziale», che a sua volta mira a decostruire «la lingua sul palato» oppure a destabilizzare le apparenze, rendendo «la voce senza pronuncia, senza fiato».
Tuttavia, Pietro Romano non sa soltanto assegnarsi un margine esclusivo di riflessione sul tempo e sul boicottaggio del linguaggio, oppure sulla veridicità e sulle apparenze della realtà e dei risvolti di quest’ultima. Il suo è un libro sull’esistere e sullo sfaldarsi dell’esistente.
Con il suo Case sepolte (i Quaderni del Bardo Edizioni, 2020), libro di prose poetiche scisso in sette sezioni (Risonanze, voci e corpi; Stato di mancanza; Case sepolte; Io distorto esploso; Pareti in frantumi; Approdi di altri mondi; A quale mondo tornare?), corredato dalle illustrazioni di Angela Catucci, Pietro Romano offre uno spazio incommensurabile, nei suoi versi, all’«inconcluso racchiuso nell’inscritto» (cioè in «una crepa», «la balbuzie delle scatole vuote», che ci narrano l’inconsistenza e la sofferenza). Infatti, a pagina 24 leggiamo: «Oggi la poesia mi rifiuta. Straripa di morti. Geometria di ombre rovesciata. Forse scrivere, o non scrivere più. Fugge adesso come allora il bambino: sono un bruto quando, penna impugnata, seppellisco morti nel duro ventre di un verso».
Sin dall’inizio l’autore disvela la sua riflessione più intima sotto ogni aspetto esistenziale, vagliando temi delicati e abissali, quali la morte e l’infanzia; temi, questi, che si installano sulla superficie di una materia che non tiene poi molto, se destinata a sfaldarsi allo stesso modo in cui il linguaggio tende ad allargarsi e, dunque, ad accelerare sempre più, creando una sorta di straniamento momentaneo nel lettore.
Un procedimento del genere, avviato dall’autore per mezzo di una scelta non solo lessematica, bensì grafica (ad esempio, in molti testi è del tutto assente la punteggiatura), conduce il lettore a trovarsi faccia a faccia con uno stile cristallizzato in una posa dove ogni sintagma si slabbra.
Uno stile che risalta ancor più grazie a quei testi – per lo più davvero brevi o quantomeno minimali, ma tutt’altro che banali (s’intende) –, i quali, facendo da contrappunto con il resto, svolgono un ruolo preponderante. Non è probabilmente un caso che l’autore li abbia prontamente ordinati all’interno del libro (si veda, ad esempio: «Piango figure senza espressione, voci gravide di senso abortite in silenzi senza forma», così come altri testi della prima metà del libro). Inoltre, a pagina 28 scoviamo altri temi che riguardano più da vicino la poetica di Romano, ossia la gioia, l’abbandono, la mancanza: poiché delle cose poco o nulla rimane, e il resto parrebbe restare occulto, ciò che emerge in superficie è una disillusa riflessione che ammicca alle numerose domande che abitano negli angoli più remoti le case sepolte nella coscienza dell’io poetante: «C’è un che di inutile nel tardare la parola: la terra è la terra e la traccia precede sé stessa»; « Il segno veridico di una presenza?/ L’erranza».
Perciò, come scrive nella postfazione Franca Alaimo, «Buona parte della scrittura di Pietro Romano è un susseguirsi ossessivo di domande alla ricerca di un impossibile incontro con sé stesso, che resta in una sorta di nonluogo e nontempo, tra l’atto del vivere morendo e del morire vivendo, istante dopo istante, annullando, perciò, la durata del gerundio, come dice in una sua riflessione, in preda ad un estraniamento esistenziale, che lo precipita nel vuoto, luogo per eccellenza ed eccedenza della poesia, che l’abita tra una parola e l’altra, nel bianco senza segni della pagina non violata. […] Le case degli uomini sono quelle sepolte nel buio della terra, nel buio della nostra psiche. Questa tragica visione dell’esistenza trova i suoi nodi sonori in parole come “crepe”, “ferite”, “cenere”, “mancanza”, “assenza” e, a volte, in un affastellato susseguirsi di nomi e di verbi, che come specchi copiano e moltiplicano il disagio dell’autore, urticando la sensibilità del lettore, quasi costringendolo ad una sfibrante indagine di qualche via d’uscita».
Vernalda Di Tanna
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Alcuni testi tratti dal libro
Il mio respiro è un grido
In voce abbiamo disamore. Siamo voce in disamore!
Legami con la dissolvenza (in tre momenti)
1. Una soglia? Tramuta tutto in fiamma. Separarsi, se è da vivi, non so.
2. Compiersi nel congedo- poi, riunirsi con le trame minute, incrociare la furia dei morti, fare stridere la lama delle ore.
3. L’intera tua vita, un addio l’ha perduta.
Dicevi: «Liberarsi dell’ignoto è liberarsi del volto». Estranea è la penombra in cui si annuncia il ricordare.
Vivere attraverso la frattura che avanza è lentamente comporsi nel cielo che divide.