TARANTO – “L’art. 27 comma 3 della Carta Costituzionale recita: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Da sempre, l’arte è una modalità di comunicazione di sentimenti, suggestioni, esperienze e si è posta sovente nella storia, quale strumento di riscatto personale e sociale, sia per i soggetti da essa rappresentati sia per gli stessi autori delle opere”.
È da questo principio che parte il progetto artistico, culturale e sociale “L’Altra città”, che verrà inaugurato il prossimo 6 maggio presso la sezione femminile della casa circondariale “Carmelo Magli”di Taranto.
Si tratta di fatto di “un unicum”, di una prima assoluta perché, se in passato è pur vero che sono stati realizzati altri progetti all’interno di un carcere, questa è di sicuro la prima volta in cui ad essere attori principali non sono né gli artisti né le loro opere, bensì le detenute e i visitatori, che qui “acquistano una nuova identità”, come afferma Achille Bonito Oliva.
Al noto critico d’arte abbiamo posto alcune domande su questo progetto, da lui curato insieme a Giovanni Lamarca, comandante del reparto di Polizia Penitenziaria del carcere di Taranto. È infatti proprio da Lamarca che è partita questa idea, tanto ambiziosa quanto innovativa, che ha permesso la realizzazione collettiva di una installazione site specific, con la quale il visitatore può interagire, vivendo in prima persona il percorso detentivo.
Achille Bonito Oliva non ha esitato a farsi coinvolgere da questa operazione:“ho aderito immediatamente quando Lamarca mi ha proposto di partecipare”.
Il critico non nega peraltro un suo legame, anche affettivo, con questa città: “Taranto la conosco sin da piccolo, in quanto è stata fonte di nutrimento … Le cozze a Napoli arrivavano da Taranto”, afferma ironicamente. “E’ così che ho cominciato a conoscerla. Nel tempo, tuttavia, si è sviluppata un altro tipo di conoscenza e poi sono seguite le mostre”.
“A Taranto – rammenta Bonito Oliva – si sono verificati una serie di eventi tragici e drammatici, pensiamo all’ILVA. Episodi che hanno coinvolto la popolazione che, malgrado il pericolo per la salute, poi tragicamente confermato, ha accettato di lavorare in questi luoghi”.
Da qui, dunque, l’adesione senza indugio all’operazione.
“La mia presenza – spiega il critico – conferisce al progetto quella complessità che permette di segnalare, non solo la creatività dei detenuti, ma anche l’impatto sul pubblico che la visita. E’ un progetto che ha una funzione sociale – continua Bonito Oliva -. Si parte dal fatto che, sia creare che fruire le opere produce un’esperienza. Non si tratta, quindi, solo di uno sguardo estetico su delle forme artistiche, ma di un’operazione che sviluppa una partecipazione polisensoriale”.
Il percorso, riprodotto con interventi artistici delle detenute, si compone infatti di quattro camere detentive, trasformate in un’opera d’arte contemporanea. L’idea è quella di dare vita a una sorta di “messa in scena” che coinvolga direttamente lo spettatore nelle vesti di un detenuto virtuale, catapultandolo in una realtà carceraria trasfigurata.
Spiega ancora Bonito Oliva: “c’è un percorso con delle procedure da seguire e passaggi obbligati. C’è l’identificazione (con rilascio di impronte digitali) degli spettatori, uno per uno. Poi c’è la chiusura delle celle in maniera individuale. Si produce quindi una esperienza che non è più quella tradizionale, come nelle gallerie o nei musei, dove lo spettatore ‘vive’ a una specie di distanza sacrale l’opera. Qui c’è una ‘stereofonia’ che accompagna il tutto. Ci sono degli input simili sia per coloro che hanno prodotto le opere, ovvero i detenuti che vivono normalmente nelle celle, sia per gli spettatori che transitano uno per uno e passano attraverso le quattro celle”.
Il visitatore è letteralmente incluso. Ma non solo, è chiamato a compiere una sorta di ideale percorso di redenzione che, dalla percezione di castigo e isolamento, potrebbe condurlo a quella di emancipazione e crescente consapevolezza. La realizzazione di un opera d’arte NEL carcere e SUL carcere, è un’attività che promuove la rielaborazione dell’esperienza di detenzione come momento di reale crescita interiore e di apertura a possibili cambiamenti, portando a riflettere anche sulle proprie “prigioni personali”.
“Questa è una mostra che permette di coinvolgere il pubblico in una esperienza individuale e collettiva nello stesso tempo”, osserva il celebre critico. “Inoltre, dimostra come l’arte possa transitare ovunque e diffondere i suoi stimoli dove capita, non necessariamente in uno spazio esclusivo o privilegiato”.
Un progetto decisamente ad alto valore educativo, anche per gli stessi detenuti che hanno vissuto significativi momenti relazionali e socializzanti, incanalando positivamente la loro potenziale creatività. “Lavorare con persone che non hanno una precedente preparazione artistica poco importa – sottolinea Bonito Oliva – non bisogna dimenticare che Giotto pare fosse un ‘pazzerello’, eppure disegnò la ‘O’ perfetta. La leggenda vuole che non fosse istruito. Non bisogna essere laureati per essere artisti!”.
Quello che accade dunque nel penitenziario di Taranto è incredibilmente insolito e autentico. Così come lo è l’intuizione dei curatori della mostra che hanno cercato nell’arte, nel suo linguaggio e nella sua potenza di riscatto ed emancipazione culturale, lo strumento di accesso alla profondità umana dei detenuti, ma anche dei visitatori.
D’altra parte, come afferma Bonito Oliva, il ruolo dell’arte contemporanea è proprio quello di “massaggiare il muscolo atrofizzato della sensibilità collettiva”.
Sulla possibilità di ripetere l’evento altrove, il critico appare invece scettico: “Ogni progetto ha una sua esemplarità. Questa è una operazione che farà riflettere, ma non è da esportare per evitare che possa diventare una sorta di manierismo. Questa esperienza a Taranto, in questo momento, sviluppa una mostra originale, particolare e unica”.
Casa circondariale “Carmelo Magli”di Taranto