ROMA – C’è un filo conduttore, un’istanza storica, sociale, particolarmente eloquente che delinea la produzione di Ettore de Conciliis (Avellino, 1941), a partire già dalle prime opere, realizzate giovanissimo intorno agli anni Sessanta.
Una parabola creativa quella di de Conciliis che, nel suo eclettismo, denota comunque una coerenza ideologica, una linearità di pensiero sempre attenta a temi ancora oggi attualissimi.
Una cifra stilistica originale fatta di tradizione, ma anche di intuizioni che, anticipando i tempi, lo hanno portato a realizzare una delle opere italiane d’arte contemporanea a tema religioso tra le più discusse in tutto il mondo.
È stato, inoltre, tra i primi artisti ad “importare” in Italia la Land Art, appresa dallo stesso Robert Smithson, grazie a una lunga permanenza a New York.
In questa nostra epoca convulsa e frammentata, l’arte del Maestro de Conciliis, grazie al suo costante messaggio di pace, rappresenta ancora uno spazio di autentica e immanente bellezza.
A rammentarci la profondità, l’impegno civile, la libertà espressiva dell’artista è oggi la mostra L’Arte e il Tempo, a cura di Generoso Bruno, aperta al pubblico fino al 31 luglio, presso la Chiesa di Santa Maria della Neve a Montella (Avellino).
In questa intervista Ettore de Conciliis si racconta, ripercorrendo parte della sua carriera artistica, anche attraverso brevi frammenti autobiografici.

Temi come i diritti civili, la fratellanza, la pace, l’orrore della guerra sono il fil rouge di tutta la sua produzione artistica, a partire dagli esordi. Temi che in questo momento storico risultano di stringente attualità. Vorrei quindi partire dal Murale della Pace, opera del 1965. Ci può raccontare la sua nascita e le sue ragioni?
Ho realizzato il Murale della Pace nella Chiesa di San Francesco nella cittadina di Avellino, dove sono nato e che ho lasciato all’età di 17 anni, quando mi sono iscritto alla Facoltà di Architettura alla Federico II di Napoli, per i primi due anni, trasferendomi poi a Roma per i successivi tre.
Il Murale si sviluppa su una parete di 120 mq ed è stato realizzato con la tecnica della caseina calcica, che ho studiato andando ad analizzare i dipinti della Camera degli Sposi di Mantegna a Mantova. Alla pittura si aggiunge anche la tecnica del collage, visibile in particolare sulla parete sinistra del murale, dove ho storicizzato, insieme al mio collaboratore Rocco Falciano, l’immagine del San Francesco di Cimabue, che sentivo molto vicina alla mia sensibilità. Il saio del Santo è stato realizzato con frammenti di sacchi di juta, in seguito molto utilizzata nell’Arte Povera da vari artisti, ma soprattutto da Alberto Burri.
La tematica di questo murale è quella della guerra e pace, un omaggio anche alla grande letteratura russa. Quando ho iniziato l’opera avevo appena 22 anni ed ero molto preoccupato del pericolo atomico. Una paura espressa nella parte centrale del dipinto, dove campeggia il fungo della bomba atomica. Sul lato sinistro sono rappresentati i volti di vari personaggi, tra cui molti leader del mondo della politica e della cultura di quegli anni, che ruotano attorno alla figura centrale di San Francesco d’Assisi.

Il lato destro è invece incentrato sul tema della guerra con i suoi orrori, tra cui le fosse comuni, oggi purtroppo nuovamente tornate in auge nell’attuale guerra tra Russia e Ucraina.
L’opera trovava in qualche modo ispirazione dal Concilio Vaticano II e dall’enciclica di Giovanni XXIII, ma era anche una risposta all’appello di Paolo VI agli artisti, sulla necessità di abbattere il muro che li divideva dalla Chiesa, che da loro si era allontanata.
Come venne accolto il murale, anche in considerazione della tematica?
Suscitò un grandissimo scandalo. Era impensabile all’epoca proporre un’iconografia che si allontanasse da quella tradizionale e convenzionale, quindi puramente decorativa e manierista. Fece scalpore, non solo in Italia ma in tutto il mondo. Se ne occuparono anche i media internazionali, dalla televisione ai giornali, alle riviste, da Paris Match, al Time alla Pravda.
Un caso eclatante fu poi quello della Domenica del Corriere. L’attacco alla mia opera iniziava già dalla copertina in cui veniva riprodotto il mio murale. In particolare, una bandiera gialla che io avevo dipinto accanto al volto di Papa Giovanni fu ritoccata in rosso, per suggerire l’idea che i comunisti avevano occupato la Chiesa. Ovviamente seguivano poi articoli denigratori all’interno del giornale.

Il messaggio del murale venne quindi frainteso?
Si, assolutamente. Il mio era più semplicemente un messaggio interreligioso, confermato dalla presenza di varie etnie, culture e religioni, appunto. Era presente, infatti, anche il ritratto di un ateo, Bertrand Russel. Ritenevo che la pace fosse un processo legato alla comprensione reciproca, a cui tutti dovessero contribuire, anche da posizioni ideologiche e religiose diverse.
Tra i vari ritratti c’era quello di Picasso, di Guttuso, di Pasolini, che proprio in quel periodo aveva terminato Il Vangelo secondo Matteo. L’obiettivo dell’opera era quello di apportare un messaggio di pace. Questa utopia è quella che ha sempre guidato il mio lavoro. Ma, evidentemente, i tempi non erano ancora maturi affinché l’opera potesse essere compresa da tutti.
Insomma, la sua operazione fu “bollata” come politica a tutti gli effetti…
La volontà era quella di migliorare il mondo attraverso l’arte e lavorare per la pace. Ma venne invece scambiata per un’azione puramente politica. In parte lo era. Ma non si trattava di propaganda politica, come ad esempio poteva essere quella dei muralisti cileni a sostegno di Allende. La mia opera era tutt’altro. Era stata realizzata per esprimere un qualcosa di sincero e per avvicinarsi ai movimenti pacifisti che incominciavano a palesarsi anche in Italia, ad Assisi, ma anche con l’opera di Danilo Dolci.
Per il Murale della Pace fui addirittura convocato dalla Commissione Pontificia di Arte Sacra di Roma, da Monsignor Giovanni Fallani che ne era Presidente. Ebbi un colloquio con Paolo VI e fui sottoposto alle domande più incredibili. Mi chiesero di apportare anche delle modifiche, di cancellare alcuni ritratti. Ma questo non era possibile, anche perché il lavoro era già stato pubblicato dai media di tutto il mondo. Poi alla fine l’opera fu approvata.

A proposito del tema della pace, lei a un certo punto va negli Stati Uniti e viene a contatto con i movimenti pacifisti di oltreoceano, con intellettuali della beat generation e anche con la cantautrice Joan Baez…
Alcune mie intuizioni di allora, che poi mi hanno accompagnato nell’arco di tutta la mia carriera ispirando anche altre opere, non trovarono risposta adeguata in una città di provincia come Avellino, anche se in realtà io già frequentavo Roma.
Ma, proprio quelle intuizioni trovarono una conferma negli Stati Uniti, quando mi trasferii a New York. Qui ho avuto incontri con pacifisti del valore di Joan Baez.
All’Università di Berkley, con il suo aiuto e quello di suo marito, ho avuto modo di presentare il Murale della Pace. Fu anche proiettato il documentario L’affresco di Ennio Lorenzini, un bravissimo regista morto qualche anno dopo in un incidente aereo, dedicato all’opera di Avellino, in cui si vedeva molto bene la qualità della mia pittura. Tradizionale nel linguaggio, ma anche molto all’avanguardia e per questo contestata da molte parti.
Torniamo al presente. Ad Avellino ha inaugurato recentemente (lo scorso 15 luglio) la mostra “L’Arte e il Tempo” a Montella, nel Convento S. Maria della Neve. Di cosa si tratta?
La mostra Arte e Tempo è la rappresentazione fotografica dei miei lavori di arte pubblica. Il tempo indica che queste opere sono state realizzate in vari periodi, ma la costante di tutti i lavori è sempre il messaggio di pace, attraverso l’interpretazione della natura: sia quella del paesaggio che quella umana.
Nella mia pittura il paesaggio è sempre presente. Provengo da studi basati sul post-impressionismo, soprattutto quello americano, che credo di conoscere bene, e il mio tentativo è quello di esprimere le emozioni che provo davanti alla natura .
Il mio è un lavoro eclettico. L’arte e la cultura possono essere eclettici, mentre l’ignoranza non lo è mai.

Con quali tecniche e medium si esprime questo suo eclettismo?
Quando io dipingo dei quadri, utilizzo una tecnica tradizionale, l’olio, la tela… Quando invece realizzo opere pubbliche, di impegno civile, utilizzo soprattutto la scultura. In questo caso, però, le opere scultoree diventano parte stessa del paesaggio.
In particolare faccio riferimento a due grandi opere di arte ambientale, di Land Art. La prima realizzata diversi anni dopo rispetto al Murale della Pace, ma comunque in continuità con esso. Si tratta del Memoriale di Portella della Ginestra a Piana degli Albanesi (Palermo).
L’opera fa riferimento all’eccidio del 1 maggio del 1947, compiuto per mano della banda di Salvatore Giuliano, che rimane però sempre nel solco della denuncia alla violenza e, per questo, la definisco in continuità con il Murale della Pace.


Questa opera, una delle prime in Italia di arte ambientale, ha preceduto di circa quattro anni il Grande Cretto che Alberto Burri realizzò sulle rovine post-sismiche di Gibellina.
L’altro lavoro di Land Art è il Parco della Pace a Roma, alla Pisana, in una zona molto ampia di circa 10 ettari.
È un’opera con tre grandi sculture dedicate alle religioni monoteiste: cattolica, islamica ed ebraica. Poi c’è una passeggiata letteraria di circa un chilometro, con monoliti scultorei incisi con frammenti poetici e letterari sulla pace di autori di culture, paesi ed epoche differenti, da San Francesco a Wojtyla, da Martin Luther King a Pasolini, e perfino Anna Frank.
Anche questo lavoro nasce dalla stessa intuizione del Murale della Pace. Questa è la continuità sottile che io ravvedo oggi.
Vorrei evidenziare, inoltre, che quest’operazione di Land Art non è un giardino con sculture all’interno, bensì un insieme plastico architettonico, risultato di una sinergia tra sculture e terreno. Un vero e proprio intervento di arte sulla terra, dalla quale emergono appunto le sculture. Questa è la specificità di questo luogo.


Il curatore della mostra di Avellino, Generoso Bruno, nel suo testo di presentazione alla mostra afferma che le sue opere “nate al di fuori dei circuiti consueti dell’arte contemporanea, non hanno mai goduto di una ‘fruizione neutrale’”, agiscono come “carne viva”. Lei cerca sempre di trasmettere un messaggio di pace, ma spesso le sue opere sono travisate e anche bersagliate…
Pensi che prima della realizzazione del Murale della Pace un mio dipinto, una Crocifissione del 1959, fu addirittura cancellata dalla Chiesa delle Oblate di Avellino.
Recentemente ho realizzato per la Basilica Michelangiolesca di Santa Maria degli Angeli e Martiri a Roma, Le Pale della Pace. Anche in questo caso c’è stata una polemica, non volevano neppure installarle. Ora sono nella Basilica da più di tre anni.
Si tratta di due paesaggi in cui, come sempre, cercavo di comunicare un messaggio di pace, di serenità. Nella pala di sinistra ho voluto inserire delle croci che emergono, quasi come anime, spiriti, dall’acqua, pensando di rendere un’omaggio ai migranti, martiri della speranza che continuamente muoiono nel Mediterraneo. Una rappresentazione insolita, nuova nell’ambito dell’arte sacra, dove solitamente il paesaggio, nell’iconografia tradizionale, fa solo da sfondo alle figure. In questo caso, ho invece voluto rendere il paesaggio protagonista e questo ha destato perplessità.
A tal proposito, vorrei ricordare Papa Ratzinger, che pur essendo distante dalla mia visione rispetto a Giovanni XXIII, ha comunque denunciato nell’ambito dell’arte sacra proprio questo compiacimento verso il manierismo e la mancanza di preoccupazione nel comunicare messaggi di valore spirituale e trascendente.

Qual è il suo rapporto con la religione, con il sacro, la spiritualità?
Nel mio caso non parlerei di religione, sono panteisticamente vicino alla natura e lontano da qualsiasi movimento religioso. La mia è una spiritualità molto intima e privata, quasi segreta, da cui attinge anche il mio tentativo artistico.
Nel suo libro, presentato proprio quest’anno, dal titolo “Il pane e le rose. Migliorare il mondo con la cultura”, lei parla in qualche modo di salvare il mondo attraverso la bellezza. È ancora possibile oggi?
Penso proprio di si. Posso dire di ammirare per questo motivo gli street artist, poiché lavorano per un pubblico ampio, non quello delle gallerie e dei circuiti del mercato dell’arte, anche se alcuni di loro sono comunque entrati in questo sistema.
Tuttavia, in questi artisti c’è una necessità di comunicare dei contenuti, esattamente come facevano i muralisti, Bisogna in ogni caso fare un distinguo. Ci sono, infatti, opere che sono solo di abbellimento, puramente decorative, mentre altre sono più impegnate e trasmettono dei messaggi, come nel caso di Banksy.

Progetti futuri?
Continua il mio impegno di artista che guarda e studia la natura. Le mie opere “di cavalletto” sono quelle sulle quali sto lavorando in questo momento. Credo che la mia prossima mostra sarà a Rovereto.