NEW YORK – Dopo quasi due anni dall’ultima intervista, riprendiamo con Ozmo (Gionata Gesi, Pontedera, 1975) il filo del discorso in relazione all’arte urbana, ma non solo. L’occasione è la personale Glitched Gods of Olympus, ospitata all’Istituto Italiano di Cultura di New York fino al 15 febbraio 2024.
In un gioco di compenetrazioni temporali, scompaginando la linearità della percezione del tempo, Ozmo in questa esposizione si confronta con la tradizione classica, reiventandone le forme attraverso le potenzialità espressive dell’intelligenza artificiale. Tra reale e immaginario, sacro e profano, classico e surreale, l’artista sfida i cliché e le convenzioni, proponendo una riscrittura artistica che va ben oltre l’idea di arte urbana.
Intessendo un dialogo istituzionale, l’arte di strada si misura con altri valori superando quello status limitante di “sottocategoria”. Ancora una volta il lavoro di Ozmo torna, dunque, a sorprendere. Il suo sguardo retrospettivo, proiettato al tempo stesso verso il futuro, si riafferma sia sul piano estetico che concettuale, confermando il suo essere artista molto più che street artist.
Attualmente sei in mostra all’Istituto Italiano di cultura a New York con “Glitched Gods of Olympus”. Puoi raccontarci qualcosa di questo progetto, come è nato e cosa rappresenta per te?
Grazie a Alessia Panella che mi ha proposto a Fabio Finotti, il direttore, ringraziando entrambi, ho avuto questa opportunità di esporre in quel contesto storico fantastico. Il palazzo è dei primi del Novecento e in pratica è pura archeologia a NY! Il titolo Glitched Gods of Olympus deriva dal Glitch, o errore che si ha nei videogiochi: nella mostra espongo quadri di grandi dimensioni generati grazie all’ausilio dell’ intelligenza artificiale, con tutti gli “errori” che io trovo forse essere la parte più interessante di quest’ultima.
Confrontarsi con la tradizione del classico filtrata da questa nuova tecnologia, che sperimento già da qualche anno, diventa una sorta di ossimoro. Ho cercato quindi di esplorare l’unione tra l’antico e il contemporaneo. Questo progetto rappresenta anche un viaggio attraverso i tempi, unendo la mia passione per l’iconografia classica con le tecniche moderne. La mia arte è guidata dalla passione per l’iconografia, la filosofia e gli aspetti culturali che essa veicola. Questa mostra è un perfetto esempio di come queste passioni si intrecciano nel mio lavoro.
È interessante questa intersezione tra urban art e istituzioni culturali, ultimamente sempre più frequente e consolidata. Ne avevamo già parlato, perché apparentemente sembra una contraddizione in termini. Tuttavia, la presenza in spazi istituzionali si può considerare, oggi, anche come una sorta di “riconoscimento” dell’arte di strada, non più sottocategoria dell’arte con l’A maiuscola? Quale ruolo hanno svolto le istituzioni culturali tradizionali nel tuo lavoro? In che modo stanno influenzando la tua evoluzione artistica (sempre che lo stiano facendo)?
Riflettendo sull’intersezione tra urban art e istituzioni culturali, ho trovato che il mio percorso artistico è stato molto arricchito da questa collaborazione. Posso dire che è stata un’esperienza illuminante. Avere il riconoscimento di spazi istituzionali ha cambiato il modo in cui vedo il mio lavoro e la sua potenziale risonanza. Ha sfatato miti e mi ha fatto capire dolorosamente dove volevo e potevo andare. È sicuramente un riconoscimento dell’arte di strada, che è passata da essere una sottocategoria a una forma d’arte importante. Questo riconoscimento è anche un’opportunità per dialogare con un pubblico più ampio e riflettere sul potere dell’arte di strada di stimolare il pensiero critico e il dibattito pubblico.
Certo, c’è il rischio che l’arte di strada, una volta accolta in questi contesti, possa perdere parte della sua urgenza e diventare più “intrattenimento” che provocazione culturale. D’altra parte il 99% della “street art” è buono solo a strappare un sorriso prima di arrivare in ufficio o ricolorare una giornata triste e grigia, per cui anche trasformarlo in semplice intrattenimento, partendo da questi presupporti , è un buon passo in avanti.
I tuoi lavori sono sempre legati a un determinato contesto, al luogo in cui vengono realizzati e dove assumono senso e significato. Questo vale anche nel caso di luoghi istituzionali?
Quello che cerco di fare è lavorare site specific, ma non solo. Nel contesto urbano e pubblico mi avvalgo spesso di consulenti come archeologi, filosofi e storici dell’arte, per approfondire gli aspetti interessanti del contesto in cui mi trovo a operare.
Nei contesti museali o espositivi anche quando non realizzo installazioni questo intento si traduce con l’inserimento di quella specifica opera alla fine della timeline della tradizione artistica, che in qualche modo deve autorizzarla ed essere autorizzata. Non si tratta quindi di semplice citazionismo. Per questo mi affascina l’uso dell’AI e non vedo assolutamente una minaccia: essa è per me uno strumento preziosissimo come il pennello, il proiettore o la gomma da cancellare.
Ozmo è un “ladro di icone”, così ti sei definito. Nei tuoi lavori c’è spesso il riferimento a opere storiche, a partire dal Rinascimento in poi. Che rapporto hai con l’arte tradizionale e quanto è stata fondamentale nella tua formazione?
Sul definirmi un “ladro di icone”, voglio chiarire che non mi sono definito io ma l’idea è stata di un amico giornalista. In realtà il mio approccio non è di semplice appropriazione: questa è un interpretazione superficiale.
Quando faccio riferimento a opere storiche, cerco di stabilire un dialogo tra epoche, unendo il passato e il presente in uno slittamento di idee e significati. Ogni opera d’arte, per me, dovrebbe essere contemporanea, deve parlare direttamente all’osservatore e riflettere osservatore. Il mio lavoro vuole sottolineare che l’arte è sempre un processo dinamico, un dialogo aperto attraverso i secoli.
C’è qualche artista o movimento che ha influenzato particolarmente il tuo stile?
Hermes Trismesitus, Guy Debord, Leonardo Da Vinci, Valentin Tomberg, Giordano Bruno.
Tu sei un artista politico, questo è indubbio. Alla luce dei cambiamenti nella società, sei convinto che l’arte possa avere ancora questo ruolo di “messaggero”. Riesce, a tuo avviso, a comunicare efficacemente soprattuto con le nuove generazioni, ad avere un impatto sociale?
Entriamo in un ambito molto delicato e che ha da sempre creato fraintendimenti. Partendo dalla precedente risposta non credo all’arte “Politica”, ma qualsiasi opera d’arte che agisce sull’essere umano a un livello profondo è di per se rivoluzionaria. A volte tocco temi di attualità ma cerco di farlo (non sempre riuscendoci) in modo simbolico, universalizzandoli.
Street art o arte politica sono etichette create per gestire meglio dei fenomeni che vengono impoveriti a uniformati. In effetti credo, nonostante possa ancora agire come agitatore, che la vera rivoluzione possa partire o debba precedere un’evoluzione sociale e di pensiero che necessariamente parte da una molteplicità di rivoluzioni interiori singole. Certamente credo che l’arte sia uno strumento principale a questo scopo.
C’è sempre una storia dietro ogni tua scelta di posizione artistico/politica?
So a cosa ti riferisci, ma è solo un altra declinazione del mio lavoro, forse anzi sicuramente non la più importante. In genere sto seduto in atelier e commento un fatto con il mio assistente. Da li parte l’impulso, un pò di pancia, quando ho realizzato quelle tre o quattro opere che tu consideri “politiche”: Macron e Meloni, il ritratto o omaggio a Destà moglie di Montanelli, il bacio tra Putin e Zelensky…etc. Fare un affiche o un disegno su un argomento specifico che è ovviamente un trend pericoloso che spesso non sopravvive a se stesso, ma come dicevo sopra, nel migliore dei casi può tendere verso l’universale.
Al di là delle diverse cancellazioni subite da tue opere, quali difficoltà o resistenze hai incontrato nel corso della tua carriera?
Principalmente le radici di tutte le mie difficoltà sono state il mio Ego o la mia ignoranza.
Come pensi possa evolvere “l’arte di strada”? Ci sono cambiamenti che ti aspetti di vedere?
Non so nemmeno se esista una vera “arte di strada”…. Come categoria degna di rilevanza in assoluto. Perché se la consideriamo come “genere” con i suoi cliché e i suoi limiti definiti allora è già morta e finita! Per cui vedo spessissimo tra i miei colleghi, specialmente francesi, la necessità di aderire a questa etichetta ma anche l’odio di chi ne subisce i danni conseguenti e la voglia di manifestare un’emancipazione.
Qual è stato il tuo progetto più ambizioso fino ad oggi, di cui ti senti più fiero? E perché?
Non saprei come sceglierne uno. Direi quello che stupisce anche me in termini di risultati, quando si inizia qualcosa che prende il sopravvento e porta non solo te, ma molte altre persone assieme a te, a confrontarsi con argomenti diversi e su terreni non considerati in partenza.
Guardando al passato, cosa ti ha spinto a diventare uno street artist, anche se non ami propriamente questa definizione?
Sottolineando ancora una volta di non sentirmi uno “street artist” ma un artista, direi che ho solo seguito il mio cuore, con fatica, cercando a posteriori magari di capirne razionalmente le ragioni e di perdonarne le ingenuità.
A questo punto la domanda di rito. Progetti futuri?
Stare finalmente nel presente, aperto a tutte le possibilità che si presentano. Ogni progetto può essere un’opportunità per esplorare nuovi territori creativi e per evolvere. Sono alla ricerca di sfide che mi spingano oltre i miei limiti e mi permettano di offrire strumenti per l’evoluzione altrui, in modi nuovi. Guardare al futuro significa per me rimanere fedele al mio percorso artistico, continuando a esplorare, sperimentare e, soprattutto, condividere la mia arte con il mondo.