ROMA – Il centro ricerca sulla comunicazione di Benetton, Fabrica, ha inaugurato a Roma il 27 novembre La Fabrica del presente, una mostra fotografica che espone i progetti fotografici e multimediali di 4 giovani artisti cresciuti artisticamente proprio nella fucina della creatività ideata da Luciano Benetton venti anni fa. Abbiamo incontrato Daria Scolamacchia, la curatrice della mostra e photoeditor nell’area Editorial, e ci siamo fatti raccontare la filosofia che che la anima e come sono nati i quattro progetti espositivi.
Come nasce Fabrica?
«Nasce vent’anni fa come un centro ricerca sulla comunicazione da un’idea di Luciano Benetton e Oliviero Toscani, con l’obiettivo di intercettare giovani creativi in tutto il mondo: Fabrica dà loro la possibilità di avere borse di studio di un anno in tre grandi aeree: Design – Editorial e Social Campaign, dove si progettano e sviluppano lavori editoriali. In alcuni casi questi progetti diventano dei libri, come Miracle Village e Lipadusa, ad esempio. Si cerca di raccontare realtà contemporanee con un taglio sociale, portando avanti anche la ricerca di ciò che c’è dietro un fatto. È il caso di Lipadusa che racconta la realtà dell’isola di Lampedusa dopo la tragedia del 3 ottobre 2013 in cui più di 360 migranti hanno perso la vita. In quel caso Calogero Cammalleri, un borsista siciliano, mandato per nove mesi a Lampedusa per raccontare la realtà dell’isola oltre l’emergenza. Cosa c’è a Lampedusa, oltre il mare che inghiotte i migranti? Lui con il suo sguardo personale e poetico ha raccontato la realtà dell’isola».
Oltre a Limpadusa, sono esposti altri tre progetti fotografici. “Iranian living room” è molto originale.
«Volevamo un lavoro che tenesse conto dello sguardo degli iraniani andando contro i cliché che solitamente lo rappresentano attraverso le immagini ufficiali che di solito vengono diffuse. In questo caso abbiamo creato una rete di quindici fotografi selezionali da Enrico Bossan, il direttore dell’area Editorial di Fabrica, che è andato in Iran, ha conosciuto questi fotografi, li ha selezionati e ha deciso di documentare i vari aspetti della società italiana. Troveremo non solo le stanze, perchè gli iraniani hanno aperto i loro salotti concedendo immagini inedite a cui certamente non siamo abituati. Ma i fotografi si sono concentrati anche sulla religione e sui matrimoni, in uno Stato in cui la religione è una colonna molto più che portante nella società».
Perché 15 fotografi e non uno?
«Per registrare la varietà di approccio e di sguardi. È importante mettere insieme sguardi, situazioni, visioni diverse. Se l’avessimo chiesto ad uno solo di loro di fotografare quanti più salotti poteva, avremmo raggiunto comunque un numero esiguo di immagini. Quindici fotografi davano la garanzia di entrare in più case e noi volevamo vedere come era la pancia del paese».
Che età hanno fatto questi fotografi?
Sotto i 30 anni. In questo caso, in Iran, perché la generazione di fotografi è molto giovane. Ma generalmente quando parliamo di Fabrica parliamo sempre di gente che ha massimo 25 anni, Tutti giovanissimi, quindi, ma il nostro è un tentativo di accompagnarli in un processo di costruzione e di creazione delle storie».
Fabrica quanti progetti segue ogni anno? E quali?
«Dipende: dalle storie e dai progetti. Dai fatti, da quello che succede, dal tempo che il progetto richiede. Per loro organizziamo residenze d’artista vere e proprie. Ora abbiamo in cantiere altri nuovi progetti e non sempre si chiudono con mostre, spesso invece si concludono con la pubblicazione di libri. Cerchiamo di sostenere progetti che riteniamo validi e quando questo succede questi progetti possono diventare anche libri. Ora per esempio stiamo lavorando ad un progetto di un fotografo che si sta occupando dei richiedenti asilo in Gran Bretagna. E uno sull’Asia Centrale».
Come avete scelto i progetti da portare in mostra?
«Abbiamo voluto portare al Museo di Roma in Trastevere i progetti che consideriamo più rappresentativi degli ultimi anni. Li abbiamo messi insieme e lavorandoci abbiamo capito che ognuno di loro raccontava delle storie di cambiamento, di passaggio. In Nightescapes abbiamo lasciato le luci accese per vedere cosa succede in alcuni dei luoghi più suggestivi d’Italia, puntando non solo sulle immagini ma anche sui suoni registrati negli stessi luoghi e poi rielaborati elettronicamente. Con Miracle Village si è indagato cosa succede nel villaggio in Florida che accoglie i sex offender alla fine della pena, cosa succede della loro normalità una volta segnati con un marchio che li segna per tutta la vita».
Come selezionate i giovani fotografi che poi accompagnate per un anno?
«Ci sono varie formule. In alcuni casi si autopropongono: fanno richiesta e noi li selezioniamo. In altri casi la scelta del fotografo avviene dopo una lunga fase di ricerca. Anche perché non è sempre facile trovare veri talenti in ragazzi così giovani. Spesso capita che a quelli selezionati vengano proposti temi su cui concentrarci. Altri volte si pensa insieme a cosa fare. Altre volte capita di appassionarci a idee che ci vengono proposte».