FIRENZE – Lo scorso 15 luglio è stato inaugurato, alla Casa circondariale Mario Gozzini di Sollicciano, il progetto “La scritta che buca”, un murale frutto di un processo partecipativo che, sia nell’ideazione che nella realizzazione, ha visto coinvolti attivamente, insieme a C.A.T. Cooperativa Sociale e all’Associazione Culturale Toscana Elektro Domestik Force, gli stessi detenuti del carcere.
A raccontare la nascita, lo sviluppo e la realizzazione dell’opera è Nico “Löpez” Bruchi, che dal 2003 è parte dell’Associazione e, insieme a Marco Milaneschi, ha firmato il progetto.
Ci racconti in poche parole come e con quale scopo nasce l’Associazione Elektro Domestik Force?
EDFcrew è un progetto che nasce nel 2003 dall’incontro con Niccolò Giannini e Daniele Orlandi. All’epoca abbiamo deciso di fare un’esperienza nel mondo dei graffiti, quasi in maniera giocosa e senza alcuna pretesa. Successivamente è nata una vera e propria passione, non solo per i graffiti in sé, ma per il viaggiare e lo stare insieme. All’inizio dipingevamo esclusivamente muri illegali, in seguito ci siamo mossi per cercare di regolarizzare il nostro lavoro, in maniera più professionale. Abbiamo quindi iniziato ad essere “ospiti” di muri altrui, allenando prima di tutto l’empatia e la nostra capacità di adattamento, accorgendoci anche che il nostro era un percorso molto centrato sugli aspetti più sociali del mondo del graffissimo. Coltivando la nostra amicizia abbiamo, dunque, deciso di dare vita a un’organizzazione più strutturata.
Da un punto di vista pratico come vi siete organizzati, che tipologia di lavori realizzate e con quali realtà vi interfacciate?
Abbiamo deciso di mixare la nostra esperienza e le nostre capacità a un tipo di organizzazione più professionale, appunto, come poteva essere quella del mondo del teatro, dal quale provengo. E’ nata un’associazione che con il tempo si è espansa e attualmente conta 11 membri, con una serie di figure che si occupano della progettazione, degli aspetti burocratici e logistici e anche del recupero fondi. Ci sono poi collaboratori e soci che fanno un grandissimo lavoro di incoraggiamento nei nostri confronti. Ci muoviamo in Italia e anche in buona parte dell’Europa con le finalità classiche del mondo dell’Urban Art, ma anche con una maggiore attenzione verso gli aspetti sociali. Per noi è fondamentale lo scambio di opinioni, il coinvolgimento, la compartecipazione, la coprogettazione. Tendiamo quindi a metterci per un momento quasi in secondo piano, per cercare di far emergere le esigenze e le volontà del luogo, del quartiere in cui andiamo ad operare.
Ci organizziamo facendo cene, coinvolgendo le associazioni di quartiere, i cosiddetti “social brokers”, ovvero persone che ci aiutano ad entrare nella dinamica del luogo.Nasce in questo modo ogni nostro progetto. Lavoriamo principalmente per scuole, ospedali, carceri, ambienti pubblici di tipo sociale, luoghi in cui passano molte persone.
Il progetto per il carcere Gozzini come ha avuto origine?
Siamo stati invitati dalla Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze e dalla Direttrice del carcere a fare una valutazione sul muro della facciata esterna, per capire se fosse effettivamente possibile realizzare qualcosa. Da un primo sopralluogo è nato uno scambio immediato, sono stati poi coinvolti una serie di partner come la cooperativa CAT di Firenze, che da molti anni lavora in carcere, per cui ci ha introdotti e guidati in un ambiente che è sicuramente più complesso di altri. Ne è nato uno scambio molto proficuo e attivo con i detenuti.
I lavori sono stati invece finanziati dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, insieme al Comune, col quale collaboriamo da molti anni.
Il murale che avete realizzato presenta una narrazione molto articolata e ricca di simbologie, puoi spiegarlo?
Questo progetto è stato realizzato con i detenuti del braccio di fine pena del carcere Gozzini. Si tratta di detenuti a cui mancano pochi anni da scontare. Nella fase progettuale ci siamo confrontati con loro cercando di capire, innanzi tutto, se considerassero utile questa iniziativa. Per molti non lo era. Per altri, invece il progetto poteva rappresentare un aiuto anche per le loro famiglie e in particolare i bambini, che trascorrono molte ore di fronte a quel muro in attesa dei colloqui. La richiesta dei detenuti coinvolti è stata principalmente quella di realizzare un murale molto colorato e con un look adeguato ai bambini. Per quanto riguarda i contenuti sono uscite tantissime idee, che noi abbiamo cercato di accorpare, dandogli un senso. Il risultato è stato un’immagine che esprime il desiderio di redenzione, metaforicamente interpretata con la distruzione del “sé” per la costruzione di nuovi “sé” e di nuove opportunità.
Il percorso narrativo prende avvio da un uomo fatto di mattoni che si sta sgretolando. Abbiamo deciso di giocare sul modulo del rettangolo, partendo dalla forma del mattone. In seguito allo sgretolamento i mattoni si trasformano in assi di legno che vengono utilizzati per costruire una nave che trasporta i detenuti sulla sabbia di un deserto, mirando verso un faro che si trova su una scogliera. Questo faro è anche una bilancia, che simboleggia l’equilibrio, la giustizia, ma anche la saggezza. Si tratta di un’immagine ispirata a una poesia di Giovanni Farina, uno dei capi dell’Anonima Sequestri, rinchiuso nel carcere Gozzini, che ci ha dedicato una bellissima poesia in cui scrive: “La libertà è una miraggio” . Ci siamo dunque immaginati questa nave che viaggia tra visioni oniriche e miraggi. Il viaggio trova la sua fine quando si arriva a una Torre di legno, fatta con le stesse assi della nave, in un paesaggio naturale, molto toscano. La torre è per eccellenza il simbolo della saggezza e della ricostruzione. Le assi della nave assumono un nuovo ruolo edificante.
Pensi che l’Urban Art abbia sempre un ruolo sociale e possa essere l’arte del futuro?
Noi ci definiamo artisti sociali, ma siamo fuori dall’etichetta di urban artist, perché non ci rappresenta. Credo che l’arte in generale abbia un mega ruolo sociale, non solo l’arte urbana. L’arte è assolutamente essenziale. Lo è ai fini sociali, perché riesce a far sognare le persone, a farle uscire dagli schemi. L’arte offre la possibilità di andare oltre, di far uscire dai confini della vita , per immaginare un mondo anche fuori dalle regole, dai problemi, questo sia nel bene che nel male.
Per quanto riguarda l’arte urbana credo sia in una fase di crescita. A un certo punto avrà magari un declino, come spesso accade per tutte le correnti artistiche e culturali. Attualmente ha un ruolo sociale, parlare attraverso i muri è importante. C’è un frase molto bella che dice: “muri bianchi, popoli muti”. Credo che sia molto vera.
Noi in questo momento stiamo decorando delle sale di ospedali e stiamo lavorando insieme ai medici e al personale ospedaliero per realizzare ambienti che, in qualche maniera, possano aiutare sia i pazienti che i familiari. Lo stesso vale per i plessi scolastici. Migliorare un ambiente scolastico esteticamente può sembrare banale, ma in realtà fa la differenza per i ragazzi.
Essere circondati da un ambiente bello è stimolante e incoraggiante. Il ruolo sociale dell’Urban art io lo vedo in questa direzione, come miglioramento estetico, quindi vitale per certi luoghi.
A quali altri progetti state lavorando?
Stiamo lavorando a diversi progetti. Il prossimo per l’ex cinema di Castelfranco di sotto, un paesino molto vicino alla nostra sede di Pontedera. Poi realizzeremo un progetto per un altro braccio del carcere di Sollicciano.
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