ROMA – Continua il percorso sulle riviste che trattano d’arte con un caso particolare: L‘Ulisse – rivista di poesia, arti e scritture. Fondata nel 2004 e particolarmente nota nell’ambito delle lettere, la corposa rivista online, arrivata al numero XXIV, presenta ogni numero con una foto d’autore di Danilo Massi.
Danilo Massi (Roma, 1956) è regista, attore e fotografo. Figlio del regista Stelvio Massi, ha esordito come attore bambino in alcune pellicole nelle quali il padre era impegnato come direttore della fotografia. Ha poi proseguito la sua carriera come aiuto regista ma anche come soggettista e sceneggiatore, non disdegnando qualche altra particina attoriale, sempre in pellicole dirette da suo padre. Ha firmato nel 1979 il suo primo film da regista, Ciao cialtroni!, candidato al Nastro d’Argento 1980 come opera prima. Lo stesso anno vince il primo premio al Festival di Giffoni nella rassegna collaterale “I problemi dei giovani nella cinematografia contemporanea”. Ben dieci anni più tardi ha girato il suo secondo lungometraggio, Una notte chiara, e nel 1994 ha firmato come Daniel Stone il suo terzo film per il cinema: Il sesto giorno – La vendetta, un action movie distribuito per il mercato estero.
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La rivista L’Ulisse ha da sempre una grande attenzione all’approfondimento critico della poesia e dell’arte. Si leggano in questa direzione le tematiche trattate negli anni:
1 – La generazione più recente della poesia italiana
2 – I mondi creativi femminili
3 – Il rapporto fra arte e realtà
4 – Ruolo e funzione dell’artista
5/6 – Le riviste letterarie cartacee italiane
7/8 – La lingua della poesia: esperienze dei linguaggi, poesia e traduzione, dialettologia
9 – Poesia e teatro, teatro di poesia (vol. I)
10 – Poesia e teatro, teatro di poesia (vol. II)
11 – La poesia lirica nel XXI secolo: tensioni, metamorfosi, ridefinizioni
12 – Antonio Porta e noi
13 – Dopo la prosa. Poesia e prosa nelle scritture contemporanee
14 – Il paese guasto: l’Italia vista dai poeti
15 – La forma del poema
16 – Nuove metriche. Ritmi, versi e vincoli nella poesia contemporanea
17 – Mappe del nuovo. Percorsi nella poesia contemporanea. E biografia
18 – Poetiche per il XXI secolo
19 – Forme ed effetti della scrittura elettronica
20 – Poesia, autofiction e biografia
21 – Saggi in versi, saggi poetici, lyrical essays
22 – Lirica & società / poesia & politica
23 – Metamorfosi dell’antico
24 – Riscrivere la natura / attraversare il paesaggio
Val la pena a questo proposito ricordare il pezzo uscito nel numero 3, anno 2005, a firma di Giorgio Verzotti (da una conferenza da lui tenuta nel 1996 presso la Fondazione Antonio Ratti di Como, in occasione del Corso Superiore di Arte Visiva):
La presenza dell’oggetto d’uso, legato alla vita quotidiana, scelto dall’artista come elemento linguistico che interagisce con gli elementi tradizionali, o che li sostituisce, data almeno dalle avanguardie storiche. Il collage in uso presso i cubisti e i dadaisti sostituiva la pratica aulica, tradizionale, della pittura “pura” e immetteva nella composizione elementi provenienti da contesti non artistici. Il frammento di giornale o di carta da parati che Braque, Picasso o Ardengo Soffici applicano alla superficie pittorica in contiguità con le zone dipinte può essere inteso nel senso di un puro valore formale (soprattutto nel caso di Braque), ma inevitabilmente apre il confronto fra i linguaggi tradizionali e quelli parlati nella vita. Il rapporto fra cultura “alta” e “bassa” che tanta importanza riveste nell’evoluzione dell’arte contemporanea nasce anche da qui. Si può dire anzi che la presenza dell’oggetto contrassegna tutto un versante delle ricerche artistiche, quello grosso modo identificabile con un concetto di artisticità inteso come strumento di indagine critica sul reale, che nell’evoluzione delle avanguardie dialettizza con un versante da intendersi come polo opposto e complementare, teso alla espressione dell’interiorità dell’artista quando non della sua spiritualità. Il primo versante ha origine con i momenti di più radicale messa in discussione dell’artisticità tradizionale, cioè in particolare con il movimento Dada. […] Nel novero delle pratiche Dada e surrealiste si muove Marcel Duchamp che si può considerare l’artista più importante fra quanti hanno adottato gli oggetti in arte. La sua non è stata tanto una scelta formale, quanto una decisione di ordine concettuale. Decidendo di esporre come opera d’arte uno scolabottiglie, un pettine, un attaccapanni o una ruota di bicicletta montata su uno sgabello, Duchamp è intervenuto non tanto sugli aspetti estetici di detti reperti, ma piuttosto sui meccanismi mentali che, tradizionalmente, sovrintendono all’attribuzione di valore artistico presso la nostra cultura. Che cosa, infatti, ci impone di pensare che quello scolabottiglie diventa un’opera d’arte? Nient’altro che la decisione dell’artista, cioè di un operatore culturale riconosciuto come tale, legittimato da un contesto; tale contesto è costituito da un luogo deputato, la galleria d’arte o il museo, e dall’aspettativa di un pubblico, che sa appunto che il ruolo di un artista è quello di produrre opere d’arte. Si comprende allora come l’interesse di Duchamp per l’oggetto trascenda l’oggetto stesso e si sposti piuttosto sul contesto, cioè sul sistema dell’arte e sui processi di attribuzione di artisticità che l’artista tematizza, implicitamente, col suo gesto di de-contestualizzazione, cioè con l’azione di spostare uno scolabottiglie da una cantina a una galleria d’arte. L’oggetto diventa un segno che apre a una riflessione di tipo critico e teorico sulla natura dell’arte nella nostra società.
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L’ultimo numero apparso, il 24, viene introdotto da un Editoriale di Stefano Salvi e Italo Testa:
Il numero XXIV de L’Ulisse è dedicato al tema Riscrivere la natura / Attraversare il paesaggio. Si è a lungo assunto, nella critica letteraria e filosofica del secondo Novecento, che il discorso sulla natura rappresentasse una forma regressiva o fosse diventato ormai impossibile in poesia. Nonostante il verdetto circa la “fine” o la “morte della natura”, la questione del rapporto dialettico tra natura e storia, natura e cultura, tra scienze naturali e letteratura, ha continuato tuttavia ad attraversare in forma carsica la tradizione del secondo Novecento, dentro, dietro e attraverso il paesaggio, per tornare infine di prepotenza nell’ultimo decennio al centro dell’immaginario, alla luce dei dibattiti sul cambiamento climatico e la crisi ecologica, l’antropocene e gli effetti geologici delle nostre forme di vita. Oltre l’idillio bucolico, la natura come risorsa da dominare, l’immagine museale del paesaggio da conservare o dell’ambiente da proteggere quale riserva, emerge ora nella scrittura e nell’arte contemporanea più avvertita la consapevolezza di una pluralità di legami che connettono tra loro forme di vita differenti, ecosistemi, tecnologie, frammenti di natura e storia. La natura, le nature, in forma plurale, ibrida, frammentata, tornano così ad essere focali anche nel mondo dell’espressione, e a interrogarci frontalmente sull’ontologia dell’attualità, sulla direzione delle trasformazioni radicali e inedite cui stiamo andando incontro collettivamente e individualmente.
Il nuovo numero de L’Ulisse intende in tal senso chiedersi in che modo la poesia contemporanea, in dialogo le arti figurative, il pensiero filosofico e le scienze naturali e sociali, sia impegnata in un processo di riscrittura della natura, intercettando fenomeni di sincronizzazione, anche disastrosa, tra elementi eterogenei, parlandoci dei cambiamenti di scala che essi comportano, della dislocazione in corso del confine tra umano e non umano, delle metamorfosi inedite che attraversano il paesaggio de-caratterizzato del nostro tempo.
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Margherita Labbe, in questo numero, propone un articolo particolarmente interessante e dal titolo emblematico: Fuga dall’antropocene: Paesaggio, Natura, Ecosistema. Appunti per un quadro provvisorio.
La prima questione in cui ci si imbatte addentrandosi in uno studio dell’arte del XX secolo è quella del rapporto tra arte e realtà, arte e natura, come si presenta e si evolve attraverso la categoria di “paesaggio” e della sua rappresentazione. Considerato per secoli un elemento accessorio, tra il XVII e il XVIII secolo divenne un genere assestante assumendo dignità d’arte, ma solo nel corso dell’Ottocento, attraverso il vasto fenomeno culturale romantico, oltre le categorie del “pittoresco” e del “sublime”, il soggetto naturale si fa protagonista, incarnando da un lato lo spirito positivista e verista, come in John Constable e Jean-Baptiste Camille Corot, e dall’altro il simbolismo di Caspar David Friedrich, Harnold Böcklin, Edvard Munch. Giulio Carlo Argan pone il romanticismo a principio dell’epoca contemporanea, con le sue propaggini nell’Einfühlung simbolista ed espressionista, alla base della teoria estetica elaborata da Robert Vischer (Über das optische Formgefühl, 1873) e Theodor Lipps (Ästhetik, 1903-1906), secondo la quale l’arte consiste nell’empatia con le forme naturali, nella profonda consonanza tra soggetto e oggetto, nella proiezione del senso vitale, che ritroviamo in Friedrich come in Van Gogh, Ernst Ludwig Kirchner e gli altri del Die Brücke. Emil Nolde, autore espressionista che ha sempre privilegiato il soggetto paesaggistico, figlio di contadini, viveva una intensa relazione mistica e simbiotica con l’elemento naturale, al punto che da ragazzo scavava buche nel terreno e vi restava disteso. […] Con le avanguardie storiche, a partire dal Cubismo, l’attenzione della pittura e della scultura si sposta sull’opera come oggetto in sé, che non rimanda ad altro se non al proprio campo d’azione, e “il naturale” torna nelle ricerche sul processo scientifico della visione, o altrimenti nella Teoria della forma e della figurazione di Paul Klee, come processo generativo delle forme mutuato dallo sviluppo degli esseri viventi e delle mappe terrestri. Alle soglie degli anni venti, soprattutto in ambito Dada e surrealista, le stesse tipologie “quadro” e “scultura”, e il riferimento a una netta distinzione tra le arti e a una peculiarità tecnologica assoluta non hanno più alcun senso per gli artisti, persistendo solo nella figurazione di regime e nei ―ritorni all’ordine (vedi il ―Novecento di Margherita Sarfatti).
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Conquistata autonomia e dignità d’arte, nel corso del XX secolo la fotografia finisce per abbandonare il territorio dell’assoluta oggettività (che in un certo senso non le è mai appartenuto), si apre il dibattito sul suo uso quale mezzo per registrare la realtà da un lato, sorta di “percezione potenziata”, e quale mezzo espressivo dall’altro per una “visione soprasensibile” (simbolismo), fino alla teorizzazione di Roland Barthes (La camera chiara, 1980), che articola le categorie studium/punctum, distinguendo un livello di comunicazione razionale e culturale da un livello soggettivo ed emotivo diverso per ciascuno spettatore. Nella teoria estetica successiva il carattere referenziale della fotografia viene del tutto superato: per Jean Baudrillard (Ombre et photo, L’Herne, Paris 2004) la vera essenza della fotografia si nega allo sguardo dell’osservatore e dal referente se ne percepiscono solo tracce; per Philippe Dubois, (che si rifà alla teoria dei segni di Charles S. Peirce, 1839-1914), la fotografia è “indizio” inseparabile dalle condizioni di enunciazione, dunque l’aspetto semantico della fotografia coincide con l’aspetto pragmatico, si espande in senso processuale; come nel concetto di “durata” di Jacques Derrida (1990) che include le tecniche di produzione, diffusione, e archiviazione dell’immagine. Le immagini digitali complicano ulteriormente la presunta oggettività della fotografia. […] Tale soggettività è dovuta ai processi di trasformazione reali, ma anche a elementi intangibili, come la memoria stratificata, personale e collettiva. Ma si può dire che la fotografia stessa contribuisca a influenzare la percezione del territorio e quindi a determinare il paesaggio e i suoi mutamenti. Anche nel genere che in teoria dovrebbe riportare fedelmente un luogo, la cartolina postale, spesso la realtà viene alterata in maniera più o meno evidente, il che ne fa un “non luogo” della rappresentazione fotografica. Ciò avviene regolarmente anche per l’illustrazione geografica e scientifica, dapprima con teleobiettivo, grandangolo e filtri, oggi con le tecnologie digitali, dallo smartphone ai più sofisticati programmi di rielaborazione delle immagini.
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L’ecologia ha cambiato il concetto di “paesaggio”, inglobandolo come aspetto particolare nella più vasta categoria dell’ambiente come ecosistema e come spazio geografico. Alain Roger, nel suo Breve trattato sul paesaggio (Sellerio, 2009), attraverso la doppia articolazione paese/paesaggio e artialisation in visu/artialisation in situ distingue il “paese” come luogo dal “paesaggio” come rappresentazione culturale stratificata dei luoghi, e l’artialisation – intervento sull’oggetto naturale – come fenomeno antropologico-culturale fisico e reale, nei cambiamenti determinati dall’uomo, oppure virtuale – in visu – indiretto, che avviene attraverso lo sguardo. Roger rivendica giustamente a partire da questa tesi una valenza del concetto di paesaggio peculiarmente artistica e culturale.
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La rappresentazione illusionistica pittorica e plastica, ormai alla pari con la fotografia, il cinema e la televisione, e spesso in dialogo con queste, si legittima ciclicamente come linguaggio contemporaneo, in virtù del fatto che rappresenta un mondo in continua mutazione, quindi sempre “nuovo”, e che della comunicazione di massa condivide i tempi e gli spazi. L’enorme produzione di pittura figurativa si deve forse oggi anche a una resistente e ingiustificata mancanza di strumenti culturali, da parte di un pubblico vasto, per comprendere i messaggi più complessi ed evoluti della ricerca recente (dovuta alle lacune ataviche dei nostri sistemi educativi), salvo le forme più plateali. Si tratta ancora di una modalità predatoria (quanto affascinante) che mette sempre in atto il rispecchiamento dell’Antropocene o del suo riflesso a “bassa risoluzione”. L’altra linea di proiezione dell’Antropocene è occupare grandi spazi, lasciare un segno nell’ambiente.
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