Per la prima volta in Italia, Palazzo Roverella ospita una grande retrospettiva dedicata a Rodney Smith (1947–2016), figura eccentrica e raffinatissima della fotografia americana del secondo Novecento. Dal 3 ottobre 2025 al 1° febbraio 2026, oltre cento opere raccontano l’universo visivo di un autore che ha fatto del paradosso misurato e della composizione impeccabile le fondamenta di una poetica inconfondibile.
La mostra, promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, in collaborazione con diChroma photography, il Comune di Rovigo e l’Accademia dei Concordi, è curata da Anne Morin e prodotta da Silvana Editoriale.
Eleganza come strategia di scarto
Il mondo fotografico di Rodney Smith è costellato di gentiluomini in cappello, paesaggi metafisici, gesti sospesi.
L’eleganza delle sue figure, impeccabile e anacronistica, sposta continuamente il baricentro dell’immagine, generando una sottile tensione tra ordine e disorientamento.
L’influenza di Magritte è dichiarata, ma nella fotografia di Smith non c’è simbolismo: c’è scena, costruzione, progettualità. Più vicina alla regia che alla spontaneità, ogni immagine è il risultato di un’elaborazione lenta, dove nulla è affidato al caso e tutto è calibrato sulla soglia dell’assurdo.
Una grammatica analogica per immagini pensate
Smith ha scelto per decenni di lavorare esclusivamente con pellicola e luce naturale, rinunciando a ogni forma di post-produzione. Il bianco e nero diventa così una lingua propria, una sorta di astrazione visiva capace di restituire profondità e sfumature emotive.
Solo a partire dal 2002 l’autore inizia a sperimentare con il colore, raggiungendo risultati visivamente sorprendenti, ma mantenendo intatta la sua grammatica di base: la centralità della forma, il controllo dello spazio, la ricerca dell’equilibrio.
“C’è molto più colore nel bianco e nero di quanto non ve ne sia nel colore”, dichiarava Smith. Una riflessione che restituisce appieno la sua concezione di fotografia come atto mentale prima che visivo.
Composizioni metafisiche, ironia muta, visione lucida
Il percorso espositivo si articola in sei sezioni: La divina proporzione, Gravità, Spazi eterei, Attraverso lo specchio, Il tempo e la permanenza, Passaggi. Ogni modulo evidenzia un aspetto della visione di Smith, che intreccia riferimenti molteplici: dalla fotografia di Walker Evans e Henri Cartier-Bresson, alla moda anni ’50, fino al cinema di Alfred Hitchcock e Wes Anderson, passando per la comicità muta di Buster Keaton.
Le sue immagini — spesso realizzate per testate come TIME, The New York Times, Vanity Fair o in collaborazione con marchi come Ralph Lauren e Neiman Marcus — sfuggono alle categorie di genere. La fotografia di moda diventa linguaggio concettuale, il ritratto si apre a derive metafisiche, il paesaggio assume una funzione narrativa.
L’armonia come costruzione e scarto
La curatrice Anne Morin — già nota per il suo lavoro di riscoperta su autori come Vivian Maier e Jacques Henri Lartigue — insiste sul carattere contemplativo dell’opera di Smith, descrivendo ogni immagine come un tentativo “di ricreare un’armonia divina”. Si tratta di una chiave di lettura legittima, ma non esclusiva. Al di là della tensione metafisica, il lavoro di Smith sembra oggi particolarmente rilevante proprio per la sua resistenza all’attualità, per la sua capacità di creare immagini che non cercano consenso ma domandano attenzione.