ROMA – L’11 marzo scorso è stata battuta all’asta da Christie’s, per quasi 70 milioni di dollari, pagati in criptovaluta, l’opera Everydays — The First 5000 Days, un gigantesco Jpeg o meglio un “collage” di 5mila file, firmati dall’artista digitale Mike Winkelmann, alias Beeple Crap. La cifra pagata è un record per un artista vivente, superato solo dal Coniglio di Jeff Koons, battuto nel 2019 per 91,1 milioni di dollari e da David Hockney, il cui Ritratto di un artista è stato venduto per 90,3 milioni di dollari nel 2018. L’unica differenza è che l’opera di Beeple è appunto un Nft (Non fungibile token).
È inoltre di qualche giorno fa la notizia che il Guggenheim di New York è alla ricerca di esperti di Nft. Ma di esempi ce ne sarebbero molti altri. Siamo dunque di fronte a un fenomeno che sta accelerando e generando frenesia, curiosità, ma anche critiche da parte dei più scettici.
Certo, Nft, blockchain, criptovalute, sono termini che sicuramente suscitano confusione, ma da questi bisogna partire per comprendere cosa stia cambiando realmente anche nel mondo e nel mercato dell’arte.
A primo acchito l’argomento appare abbastanza “fumoso”, se non addirittura ostico. A venirci incontro, per cercare di decifrare e de-criptare alcuni di questi termini, è il curatore d’arte e ricercatore, Stefano Antonelli.
Nft, ovvero un “gettone digitale”, cosa si intende esattamente?
Partiamo dal concetto che Nft e arte non sono strettamente legati, o almeno non c’è un’immediata attinenza o correlazione. La stessa tela, se vogliamo, non è un oggetto correlato al mondo dell’arte, ci si possono fare molte cose, tra cui anche arte, ma non solo. Ecco lo stesso accade con gli Nft. Quest’ultimi rappresentano infatti una particolare tecnologia che garantisce a un oggetto digitale tre caratteristiche: unicità, stabilità e autenticità. Se nel mondo del digitale vige, infatti, il paradigma della riproduzione, con questa tecnologia si instaura invece il concetto di non riproducibilità, proprio per le tre condizioni citate.
Nft, ovvero Non fungible token, è quindi la proiezione inversa, l’opposto delle cripto currency, come bitcoin o ethereum. La cripto currency è infatti un fungible token, cioè un gettone scambiabile, mentre Nft non lo è. Ed è per questo motivo che viene definito non fungible. Inoltre, il digital value, il valore assunto nell’ambito digitale, dagli Nft, rimane legato all’oggetto, al contrario delle cripto valute.
Stiamo quindi parlando di un certificato di autenticità a tutti gli effetti?
Esattamente. E chi certifica l’autenticità di un oggetto digitale è la blockchain, cioè il registro, o meglio la ricostruzione dei concatenamenti dei vari passaggi dell’oggetto digitale, dal momento in cui è stato realizzato. Nell’arte antica, il corrispettivo della blockchain è la provenienza dell’opera, quindi tutti i passaggi documentati. In quest’ultimo caso si tratta ovviamente di una blockchain non digitale.
Qual è l’ambito, lo scenario in cui si muove Beeple e come si è arrivati alla vendita della sua opera a una cifra stratosferica?
Lo scenario è quello dei digital makers, dei creatori digitali, che sono di fatto degli artigiani digitali, dei modellatori, molto disciplinari e con conoscenze incredibili. E’ questo l’ambito dei video game, che sono una vera e propria direttrice di sviluppo e innovazione, in cui si stanno osservando anche i cambiamenti sociali. Dagli stessi video game si sta sviluppando una letteratura ragionata, con visioni del mondo utopiche, distopiche, eterotopiche, queer cyborg.
All’interno di questo contesto si inserisce anche Beeple Crap, una figura tecnica che nasce appunto come grafico digitale. Beeple lavora dapprima per l’industria, poi inizia a realizzare immagini jpeg e capisce che questi file digitali si possono rendere unici. Prende una piccola parte della sua collezione, li mette in vendita a 200 dollari l’uno e nel giro di un’ora realizza due milioni di dollari.
Ci troviamo insomma dinnanzi a un nuovo principio che è potenzialmente disruptivo, di rottura, perché si appresta a modificare condizioni che credevamo stabili. Un fenomeno del genere non si può pensare che venga dal nulla, pone invece le sue basi nel poststrutturalismo francese. Ha alle spalle una teoria molto solida e conosciuta. E’ propriamente il mondo prospettato in Millepiani da Gilles Deleuze, quindi il rizoma al posto della struttura ad albero, il decentramento del potere, l’assenza di gerarchie.
Questa stagione tecnologica sta in qualche modo togliendo spazio all’egemonia dell’arte contemporanea, che da oltre 40 anni non fa altro che riflettere su se stessa. Questi nuovi maestri artigiani digitali soddisfano una nuova committenza. Lo stesso collezionismo si sta spostando sempre più sulla street art e sull’arte digitale. L’arte contemporanea non è, infatti, in grado di proporre nuovi temi e ricucire anche il rapporto con il pubblico. L’idea che un oggetto digitale possa essere unico, stabile, autentico è invece un’idea rivoluzionaria e le tecnologie di non-riproducibilità cominciano quindi a sottrarre all’arte contemporanea una buona fetta di mercato.
La vendita dell’opera di Beeple per 70 milioni di dollari riguarda propriamente la dimensione economica, nessuno spende quella cifra solo per acquistare un’opera d’arte, piuttosto per comunicare qualcosa al mondo.
In che senso? Parliamo di speculazione? Chi ha acquistato l’opera di Beeple?
Dal mio punto di vista, ma è solo una mia opinione, non si tratta di speculazione, ma di qualcosa di molto più complesso. Per fare una speculazione bisogna già sapere a chi rivendere per poter avere un ricavo maggiore, nel più breve tempo possibile. In questo caso, si sa che gli acquirenti dei 5mila file di Beeple sono Vignesh Sundaresan, vero nome di Metakovan, e Twobadour, due “immigrati” – come si sono definiti loro stessi – provenienti dal Tamil Nadu, una regione dell’India. In un comunicato specificano di essere “Indiani, persone di colore, che dimostrano di poter essere mecenati e che la criptovaluta è un potere di equalizzazione tra l’Occidente e il resto mondo, e che il sud del mondo sta sorgendo”. Siamo quindi di fronte a un fatto politico, a uno spostamento culturale ed economico. D’altra parte negli ultimi anni i top price si fanno in Asia. Il mondo digitale sta offrendo una nuova cartografia per l’arte che sta sottraendo territorio a chi l’aveva territorializzata, ed è in corso una ri-territorializzazione altrove, principalmente in Asia.
Gli acquirenti di queste opere possono definirsi collezionisti?
Collezionisti, imprenditori, buyer. In realtà non lo sappiamo di preciso, anche perché è difficile per ora utilizzare delle categorie nate nel ‘900. I due compratori ritengono che l’acquisto dell’opera di Beeple per 70 milioni sia stato un affare. Io sostengo che lo sia e che, anzi, quel lavoro valga molto di più dei 70 milioni che è stato pagato. Loro hanno comprato l’archivio di Beeple. Si è parlato di acquisto di 5 mila file, ma in realtà sono state comprate 5 mila opere.
Ma di fatto si è comprato un certificato…
Sono opere a tutti gli effetti. Sul sito di Beeple si vede come appaiono, addirittura in cornice, posizionate esattamente come una qualsiasi altra opera. Il file si può vedere sul computer, su un tablet, su un qualsiasi schermo sulle pareti di casa. D’altra parte, soprattutto in questo momento particolare, noi guardiamo tutto, o quasi, attraverso schermi, in particolare attraverso il cellulare, che è diventata la nostra finestra sul mondo. Ora, attraverso lo schermo, iniziamo a vedere rappresentazioni prodotte appositamente per questa dimensione digitale e non solo la trasposizione dell’analogico sul digitale. E’ un’esperienza che magari accettiamo poco perché ci sembra non reale.
Forse è più semplice da comprendere per le nuove generazioni?
Sicuramente. Ma va cambiato il paradigma. E’ vero manca la materialità, il supporto reale, l’odore della vernice, ma quello lo si sente anche su una “crosta” di un pittore di poco valore. In fondo ciò che interessa veramente è invece la rappresentazione, sia essa su un supporto fisico o su uno non fisico. L’arte si rende significante attraverso la rappresentazione.
Nft comunque è solo l’inizio, è il primo bagliore di una fenomenologia che riguarda il valore e ci fa comprendere che i principi economici del mondo reale stanno entrando nel mondo digitale. Si è creato un altro mondo che si sta organizzando. Potremmo essere di fronte a un paradigm-shift, appunto a un cambio di paradigma.
In Italia qual è la situazione, ci sono artisti che si stanno muovendo in questo ambito?
In Italia il discorso è molto interessante, come nel caso di Nicola Verlato, che è un pittore barocco contemporaneo, studioso di pittura rinascimentale, ma che già venti anni fa ha iniziato a modellare su Maya (software di animazione computerizzata 3D, ndr). Oggi realizza dei quadri a olio e anche Nft. Lui è il caso tipico dell’artista tradizionale che porta i suoi quadri nel digitale.
Sempre in Italia opera un duo che si chiama HackaTao, che sono dei criptoartist e che nel 2018 hanno realizzato una mostra al Circolo degli Esteri. Quindi stiamo parlando di qualcosa già ormai totalmente acquisito in alcune visioni del contemporaneo.
La gestione su piattaforme non pone il problema dell’hacking?
Non a questo livello. Nel senso che se parliamo di furto, manipolazione dei dati su blockchain e certificati Nft, il problema non si pone. Per hackerare e rompere la catena di una blockchain si dovrebbero eseguire una quantità di calcoli intensivi, praticamente impossibili, servirebbe l’energia di tutta la città di New York per un mese per poterli realizzare. Il protocollo blockchain, come quello dei bitcoin, è estremamente complesso. E’ qui la loro potenza. Il problema è che per non permettere l’hacking serve anche un consumo enorme di energia. E questa è anche la maggiore critica che viene fatta.
Quindi non è sostenibile a livello ambientale?
Diciamo che rispetto a questo c’è sicuramente allarmismo e anche punti di vista differenti. La vedo però più come una sorta di estremizzazione e negativizzazione, anche da parte dello stesso mondo dell’arte contemporanea, che comincia a perdere terreno.
Il problema del consumo energetico ci dimostra, tuttavia, che questo mondo digitale non è totalmente immateriale, si basa invece su una struttura materiale, come ad esempio le dorsali per portare i cavi di internet, o i vari cloud. Questi ultimi hanno necessità di raffreddamento e da qui nasce appunto anche il discorso sul consumo di energia. Molti osservatori stanno guardando a cosa accade in Groenlandia, in Alaska. E’ li che si dovrà probabilmente pensare di mettere i cloud dei computer, poiché il raffreddamento non costa nulla.
Stefano Antonelli (1966) è un curatore d’arte e ricercatore interessato alle relazioni tra arte e ordinario. Fondatore e direttore artistico di 999Foundation, é stato tra i pionieri in Italia nella sistematizzazione delle pratiche curatoriali dello spazio pubblico e di museoformazione urbana. Ha curato la realizzazione di opere pubbliche di alcuni tra più importanti artisti italiani e internazionali. E’ ideatore e curatore di progetti come il M.A.G.R., Museo Abusivo Gestito dai Rom, Ostiense District e il Museo Condominiale di Tor Marancia che ha rappresentato l’Italia alla Biennale di Venezia, 15° Mostra di Architettura. Ha curato nel 2016 “Guerra, Capitalismo e Libertà”, la prima mostra monografica mai realizzata su Banksy (Fondazione Roma Museo), oltre ad aver curato mostre per il MACRO di Roma, Palazzo Ducale di Genova, Palazzo dei Diamanti a Ferrara. Consulente culturale di amministrazioni pubbliche e imprese, è attivo nella diffusione e divulgazione culturale attraverso pubblicazioni, conferenze, seminari, laboratori e docenze presso istituzioni e università tra cui Luiss Guido Carli, La Sapienza, IULM, Roma Tre, Macro e PAC di Milano. E’ inoltre autore di saggi critici e cataloghi d’arte, oltre ad essere regista, autore, scrittore e drammaturgo.