Con un annuncio diramato tramite Truth Social, Donald Trump ha dichiarato, nei giorni scorsi, di aver “licenziato” Kim Sajet dalla direzione della National Portrait Gallery di Washington. Una mossa che, oltre a non avere basi giuridiche, rivela un nuovo fronte della battaglia ideologica che l’ex presidente ha intrapreso contro le istituzioni culturali americane. In particolare, contro quelle realtà che negli ultimi anni hanno abbracciato politiche di diversità, equità e inclusione — il tanto discusso paradigma DEI.
Una dichiarazione senza potere esecutivo
Trump ha accusato Sajet di essere “fortemente faziosa” e una “convinta sostenitrice della DEI”, definendo il suo operato “inappropriato per il ruolo” di direttrice di una galleria pubblica. Tuttavia, dal punto di vista legale, il presidente degli Stati Uniti non ha autorità diretta sulla rimozione di figure dirigenziali all’interno dello Smithsonian Institution, il complesso museale che sovrintende anche alla National Portrait Gallery. Le nomine e le eventuali revoche dipendono infatti dal Segretario dello Smithsonian, a sua volta nominato dal Consiglio dei Reggenti dell’ente, e non dal governo federale.
Il gesto di Trump appare dunque più come un atto simbolico e propagandistico che come una misura amministrativa, ma inserito in un contesto preciso: quello della sua offensiva contro la cosiddetta “ideologia divisiva” e le narrazioni storiche alternative promosse da alcune istituzioni culturali statunitensi.
Il profilo di una direttrice internazionale
Kim Sajet, storica dell’arte di formazione, è nata in Nigeria, cresciuta in Australia e naturalizzata olandese. Guida la National Portrait Gallery dal 2013 ed è stata la prima donna a dirigere il museo dalla sua fondazione nel 1962. La sua carriera si è sviluppata tra Australia e Stati Uniti, con incarichi di vertice in istituzioni come la Pennsylvania Academy of Fine Arts e la Historical Society of Pennsylvania, oltre a un’importante esperienza nel settore corporate al Philadelphia Museum of Art.
Alla guida della National Portrait Gallery, Sajet ha trasformato radicalmente il modo di intendere il ritratto pubblico negli Stati Uniti: non più solo rappresentazione delle élite, ma spazio critico per riflettere su identità, memoria e appartenenze. La mostra permanente America’s Presidents, che include anche un ritratto di Trump, realizzato dal fotografo Matt McClain, è stata affiancata da programmi innovativi come il podcast Portraits e la serie interdisciplinare PORTRAITS, che ha coinvolto poeti, storici e attivisti in un dialogo sulla rappresentazione visiva dell’America.
Un museo al centro della polarizzazione politica
Il nome di Sajet non compariva nell’ordine esecutivo firmato a marzo da Trump, intitolato Restoring Truth and Sanity to American History, ma la sua rimozione simbolica rientra a pieno titolo nella campagna presidenziale contro le narrazioni considerate “woke” o divisive. L’ordine ha incaricato il vicepresidente JD Vance — figura chiave del trumpismo culturale — di supervisionare i programmi dello Smithsonian per assicurare che promuovano “valori americani condivisi”.
Nel mirino, oltre alla Portrait Gallery, sono finiti anche il National Museum of African American History and Culture e l’American Women’s History Museum. Il rischio paventato è quello di un ridimensionamento dei finanziamenti pubblici per le istituzioni che non si allineano con la nuova agenda politica: un meccanismo indiretto di censura che, pur non passando da licenziamenti formali, può minare l’autonomia dei musei federali.
Visione culturale a rischio
Kim Sajet ha più volte sottolineato l’importanza di mantenere un approccio rigoroso e storicamente fondato alla narrazione museale, evitando interpretazioni ideologiche. Ma è proprio questa visione — pluralista, inclusiva, orientata alla complessità — ad essere percepita oggi da alcuni settori conservatori come una minaccia. Nonostante gli sforzi della direttrice per costruire un museo capace di parlare a pubblici diversi e di affrontare la storia americana con onestà intellettuale, la politicizzazione del dibattito culturale sembra aver trasformato il suo ruolo in un bersaglio.
Al momento, il sito della National Portrait Gallery riporta ancora il suo nome come direttrice. Ma l’annuncio di Trump, pur privo di effetti immediati, segnala un ulteriore irrigidimento nei rapporti tra Casa Bianca e mondo della cultura. Il caso Sajet assume una valenza che va oltre il singolo incarico: è il sintomo di un conflitto più ampio, che riguarda la possibilità stessa di fare cultura pubblica negli Stati Uniti contemporanei.