IMOLA – Fino al 19 gennaio 2025, il Museo San Domenico di Imola ospita la grande antologica Myth Generation di Nicola Verlato (Verona, 1965), a cura di Diego Galizzi, organizzata da Imola Musei in collaborazione con la Galleria Giovanni Bonelli di Milano. La mostra presenta oltre cinquanta opere tra dipinti, sculture e disegni in un percorso “diacronico” che, oltre a mettere in luce la coerenza di una ricerca continua e appassionata, è un viaggio attraverso il mito, inteso come motore di narrazioni e specchio delle nostre inquietudini.
In un costante equilibrio tra ordine e disordine, tradizione e sperimentazione, l’artista veronese dà vita a una nuova mitologia visiva inedita, drammatica e spiazzante, senza mai rinunciare a una stupefacente qualità estetica e compositiva. Come rammenta Galizzi, nel lavoro di Verlato “gli echi di un passato ancestrale riaffiorano continuamente, reinterpretati e a volte stravolti” tuttavia, la figura dell’Uomo rimane comunque centrale con i suoi “valori ma anche col suo disordine morale“.
Come nasce la scelta di questo titolo “Myth Generation” e cosa rappresenta per te il mito oggi?
Il titolo della mostra è stato scelto da Diego Galizzi, direttore del museo e curatore dell’esposizione, che ha identificato il mito come tema portante di tutto il mio lavoro. Il nome Myth Generation, con un gioco di parole che richiama la Beat Generation di Kerouac e Ginsberg, sottolinea, appunto, l’aspetto narrativo sotteso alle mie opere.
La mitologia, da sempre, mi affascina perché vedo nelle arti plastiche un punto di arrivo fisico, una sorta di “addensamento” delle narrative nelle quali noi siamo costantemente coinvolti e che continuamente noi creiamo. In termini più generali, l’umanità, in fondo, non smette mai di produrre narrazioni attraverso cui interpretiamo e comprendiamo il mondo.
Ho osservato come, dall’antichità ad oggi, il sistema dei media sia evoluto arricchendo queste narrative lineari che, sedimentandosi nel tempo, arrivano a richiedere una forma plastica, un’espressione concreta. Identifico quindi la pittura e la scultura come trasformazioni del tempo nello spazio. Ogni dipinto nasce da sollecitazioni narrative che nel processo creativo subiscono una metamorfosi ontologica, diventando altro. Così, ogni opera è il risultato di narrazioni lineari che aspirano a tradursi in forma.

Conquest of the West, olio su tela, 204×137, 2011

Utilizzi metodologie particolari per realizzare questa forma: da un lato, mantieni una composizione classica, ispirata al Rinascimento e al Seicento, dall’altro, impieghi tecnologie avanzate. Questa sorta di dualismo ti facilita nel processo creativo, offre vantaggi da un punto di vista narrativo?
Hai individuato, giustamente i termini formali su cui lavoro, ma per me non si tratta di uno stile legato a un’epoca specifica, ma di un’identità culturale, profondamente italiana, che porto dentro da sempre. Da bambino sono stato folgorato dalla potenza di Caravaggio e ho continuato a “nutrirmi” di Michelangelo, Pontormo, Rosso Fiorentino e Dürer. Questa lunga tradizione, iniziata nel mondo greco antico e ripresa nel Rinascimento, l’ho sempre sentita come la “maniera” di fare arte.
Non vedo un dualismo tra questa cultura e le tecnologie moderne, perché queste ultime hanno solo arricchito la nostra tradizione, ampliando le possibilità di espressione. Tuttavia, non tutte le tecnologie sono adatte al mio processo creativo: la fotografia, ad esempio, si è sviluppata in opposizione a questa tradizione, essendo pensata come “documento” del reale. Al contrario, l’uso del computer e della modellazione 3D, che ho iniziato a esplorare nel 1982 dopo aver visto le animazioni wireframe (ovvero a filo di ferro) nel film Tron, è in perfetta continuità con la nostra tradizione.
Quelle immagini ricordavano i disegni e le forme geometriche poligonalizzate di Paolo Uccello e Piero della Francesca del 1460. Ho intravisto nella tecnologia la possibilità di ripresa e rivitalizzazione di questo antico progetto che sarebbe, altrimenti, rimasto incompiuto. Per cui, per riprodurre immagini vive e vitali, ho compreso che dovevo padroneggiare la tecnologia, che ritengo consanguinea a quella tradizione a cui ho sempre lavorato. Questo non per scelta, ma perché ci sono nato dentro. Amo alla follia la pittura del Rinascimento, del Barocco e ho sentito che per me, questa era la strada migliore per dare forma anche alle narrative contemporanee.

Nelle tue opere si percepisce una dimensione di caos e di tragicità, ma anche un approccio, se mi permetti il termine, provocatorio. Queste figure aggettanti, che avanzano verso lo spettatore, sembrano voler amplificare il senso di tragicità: qual è il ruolo e il motivo di questa scelta?
La dimensione del tragico è assolutamente presente, anche grazie a influenze letterarie e filosofiche come La nascita della tragedia di Nietzsche. Sono affascinato dal concetto del sapere tragico. Nei miei dipinti è costante il tema dell’hybris, di un’umanità che va oltre i propri limiti per ritrovarsi poi vittima di un destino tragico; una situazione più che mai attuale se pensiamo alle crisi ambientali o geopolitche. Ho sempre avvertito una minaccia incombente, il senso di una fine disastrosa, che ricalca proprio il concetto greco del limite e della tragica arroganza umana.
Mi fa piacere che tu abbia notato l’aspetto delle figure che si avvicinano allo spettatore. Per me il dipinto è come un luogo in cui avviene un evento, dove qualcosa di particolarmente cogente si svolge davanti ai nostri occhi. Le figure avanzano verso di noi e noi ci proiettiamo verso di loro: il quadro diventa luogo di incontro tra osservatore e soggetto del dipinto. Mi interessa creare questo effetto che desumo, come al solito, dalla tradizione classica e rinascimentale, in cui si mettevano in atto stratagemmi visivi per dare l’impressione che le figure aggettanti stessero per invadere lo spazio reale, come se volessero davvero entrare nel nostro mondo.
Pasolini, a cui hai dedicato ampio spazio con tre mostre importanti in collaborazione con Associazione MetaMorfosi – alle Terme di Diocleziano a Roma, a Palazzo Lanfranchi a Matera e al Maschio Angioino a Napoli – incarna perfettamente questa dimensione tragica. Tornando, quindi alla tua ricerca, cosa significa oggi per te rappresentare una figura come la sua?
Quello che mi ha sempre interessato fare è inserirmi nel processo di mitologizzazione di una figura. Le narrative ruotano attorno a personaggi e personalità di grande rilevanza, capaci di dare forma al loro tempo. Ho iniziato a interessarmi a Pasolini quando ero ancora a Los Angeles, dove mi occupavo anche di figure della cultura pop come Michael Jackson, Madonna, James Dean e altri ancora. Mi sono chiesto, mentre lavoravo sui miti della cultura americana, se esistesse in Italia qualcuno che fosse entrato in quel processo mitologico che la nostra cultura produce costantemente. Sicuramente era Pasolini. Italiano fino al midollo, grandissimo intellettuale di rara profondità, ma che è riuscito anche a diventare un “corpo”, un protagonista del sistema mediatico. Questo aspetto mi ha profondamente affascinato.

Inserire e reinterpretare la figura di Pasolini in spazi così diversi, dalle Terme di Diocleziano fino al Museo San Domenico di Imola, ha presentato delle difficoltà particolari?
In Italia c’è una profonda consapevolezza dell’importanza di Pasolini, e io sento un grande desiderio di rendere omaggio a questo grande intellettuale. Il mio lavoro su di lui, come dicevo, è iniziato a Los Angeles con un singolo quadro che è diventato poi la base di un progetto più ampio, esteso all’architettura, alla scultura e a ulteriori dipinti. La prima mostra si è tenuta in un piccolo museo vicino a Milano; poi ho partecipato a una mostra al MART, curata da Vittorio Sgarbi, dedicata al rapporto tra Pasolini e Caravaggio. Qui esponevo un grande dipinto appositamente realizzato (ora esposto anche a Imola), un disegno di fregio per un ipotetico mausoleo da costruire sul luogo dell’uccisione di Pasolini, e una scultura, pensata come fulcro di questo progetto architettonico.
In un secondo momento, ho creato un grande quadro ispirato alla composizione del Seppellimento di Santa Lucia di Caravaggio, utilizzandolo come base per inserire vari riferimenti a Pasolini. Successivamente ci sono state le tre mostre, che tu citavi, con MetaMorfosi di Pietro Folena.
Un altro dipinto è stato portato alla Triennale di Milano per una mostra dello scorso anno e poi infine questa retrospettiva a Imola. Ho notato che, ogni volta che ho proposto Pasolini, c’è stata una grande apertura e accoglienza. Pasolini è una personalità così complessa, fertile, ricca di possibilità che si espandono in ogni ambito da quello più popolare al più colto, per cui ho sempre avuto un’ampia e positiva risposta.


Hai nominato alcune figure pop di cui ti sei occupato, tra queste James Dean e con lui altre personalità accomunate da una fine tragica. Nella mostra di Imola l’elemento tragico è sempre dominante o vengono affrontati anche altri aspetti?
A Imola emergono anche altri temi significativi ma, come hai notato, torna sempre la rappresentazione di figure segnate da una fine tragica. Credo che, quando un’intera vita viene raccontata attraverso il sistema mediatico – di cui fanno parte anche la pittura e la scultura – questa raggiunga la sua forma più completa proprio nel momento della fine, in particolare se si tratta di una morte non naturale.
Altri elementi presenti sono delle riflessioni metanarrative e metalinguistiche. Nell’ultima sezione della mostra, ci sono opere in cui ho voluto riflettere, in forma pittorica e scultorea, sulla mia metodologia di lavoro. Si tratta di una sorta di manifesti ideologici, nei quali evidenzio la forte continuità culturale tra la contemporaneità e le tecnologie, proponendo una visione che, piuttosto che spingere verso un abisso faustiano o un trionfo cieco della tecnica sull’uomo, miri a un nuovo umanesimo. Sono opere che invitano a riflettere sul pericolo dell’hybris, suggerendo la necessità di mantenere un equilibrio.
Sono fermamente convinto che l’arte abbia sempre avuto questo ruolo, soprattutto in Occidente, dove a volte ci siamo lasciati invece trascinare dall’hybris. Oggi siamo in un momento storico in cui l’arte deve ricordarci di non lasciarci prendere troppo dall’entusiasmo per un’idea millenaristica del progresso e dei destini dell’umanità fondati esclusivamente sulla tecnologia. Guardando all’arte del passato, come le sculture di Bernini o i capolavori del Partenone di Fidia, comprendiamo che ciò che è stato raggiunto è, in parte, irraggiungibile per noi oggi, e questo è un importante elemento di riequilibrio: l’arte ci ricorda di non sovrastimare i progressi odierni.
In mostra c’è un’opera chiave, Atlantide, che esprime questo concetto. È un dipinto “polemico”, un richiamo alla Nuova Atlantide di Francis Bacon, che era una specie di inno al superamento di ogni limite. Al contrario, riprendendo la copertina dell’opera di Bacon, ho voluto mostrare il fallimento di questi eccessi e dell’ottimismo sfrenato a cui la nostra cultura occidentale sembra incline.
Qual è il messaggio che la mostra vorrebbe quindi trasmettere o sul quale far riflettere?
Il punto focale è il discorso sul classico e sull’equilibrio tra le diverse forze che ci animano, anziché lasciarsi trascinare esclusivamente da una o dall’altra. Con umiltà, cerco di avvicinarmi il più possibile ai principi della Grecia classica anche in questo: l’obiettivo fondamentale rimane vivere nell’equilibrio.

“Myth Generation” rappresenta il culmine di un percorso artistico che ti vede coinvolto da molti anni. Come vedi l’evoluzione della tua carriera e quali nuove direzioni vorresti esplorare o eventualmente intraprendere in futuro?
In questa mostra, grazie alla struttura espositiva curata da Galizzi, in modo non cronologico ma diacronico, emerge chiaramente una continuità sia stilistica che tematica. Il percorso, che attraversa vent’anni di attività, inizia con un’opera del 2022, prosegue con una di dieci anni fa, per poi passare a un’altra di vent’anni prima, evitando una sequenza temporale rigida. Quello che traspare è un progetto che si sviluppa nel tempo, seguendo il principio di Nietzsche di “diventare se stessi.” Intendo proseguire su questa strada, continuando a divenire me stesso.
Vademecum
Nicola Verlato. Myth Generation
Museo San Domenico Via Sacchi, 4 – Imola
Dal 26/10/2024 al 19/01/2025
Orari venerdì dalle 15 alle 19;
sabato e domenica dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 19.
Chiusura il 25 dicembre e il 1° gennaio.
Biglietti: intero 4 euro, ridotto 3 euro (il biglietto comprende l’accesso alle collezioni del museo).
Gratuito per bambini e ragazzi fino a 14 anni e scolaresche.
Info 0542 602609, musei@comune.imola.bo.it