Donatella Franchi è un’artista nota per i libri d’artista e le installazioni, che ha esposto in Italia e all’estero (Istituto Italiano di Cultura di Washington, 2001, Università di Barcellona, 2004). Ha partecipato a diverse rassegne in Italia e al Washington Museum of Women in the Arts. Alcune sue opere fanno parte della collezione dello stesso museo, e della Rhode Island School of Design (Providence, U.S.A.). Parallelamente al lavoro visivo svolge un’attività di ricerca sui cambiamenti che il femminismo ha portato nel mondo dell’arte contemporanea e nel pensiero sull’arte. È docente di pratiche artistiche nel Master online di studi sulla differenza sessuale del Centro di Ricerca Duoda dell’Università di Barcellona, con il quale collabora dal 2009.
I temi su cui lavora sono le relazioni d’amicizia e di cura: Cartografia dei sentimenti, sul mondo delle Preziose, Progetto Clotilde, dedicato al rapporto con la propria madre, Donne con le ali, dedicato alle donne straniere che fanno lavoro di cura. Vive e lavora a Bologna.
Gabriella Musetti, nel suo recente “Un buon uso della vita” (Samuele Editore, 2021, collana Scilla, presentato al Salone del Libro di Torino e a Book City 2021), inserisce una cartolina d’arte con riproduzioni di alcuni suoi lavori.
Nello specifico:
Donne con le ali
(2011-2018 work in progress)
sulle donne straniere che fanno lavoro di cura
Tecnica: acquerello e inchiostro su carta di riso
Fotografie di Guido Piacentini
Installazione alla Biennale Donna di Trieste, 2019
al MAT/tam 43 di Mantova, 2019
al Circolo culturale Merlettaia di Foggia nel 2017
Intervista a Donatella Franchi a cura di Alessandro Canzian
AC: Arte e Poesia nel libro di Gabriella Musetti e oltre. Come si intersecano questi due linguaggi nella sua produzione artistica?
DF: Leggo Un buon uso della vita, l’ultima raccolta poetica di Gabriella, che segue La manutenzione dei sentimenti, come una profonda meditazione sulla morte e sulla vita, sul dolore, un testo di poesia di grande intensità e forza. Nel mio lavoro visivo Donne con le ali, con un altro linguaggio affronto anche io questi temi. La poesia, il lavorio della scrittura, e il lavoro artistico con il suo paziente provare e riprovare, aiutano a vivere, a riparare e a guarire.
Vivo entrambi i linguaggi della poesia e dell’arte visiva come l’esperienza del sentire e pensare per immagini e visioni.
Nella mia pratica artistica ho spesso utilizzato la parola manoscritta come immagine, la calligrafia come traccia del corpo, come gestualità che la mano lascia impressa sulla carta. La mia ricerca sulle sorelle Brontȅ, a cui mi sono ispirata per creare i miei primi libri d’artista e installazioni, partiva dalla suggestione suscitata da un piccolo foglio manoscritto, l’inizio di un romanzo di Charlotte adolescente, intitolato The Secret. La calligrafia era così minuta da risultare quasi indecifrabile. La riproduzione di quel foglietto è l’unica immagine che si trova nella biografia di Charlotte Brontȅ scritta da Elizabeth Gaskell dopo la sua morte. Da qui era cominciata la ricerca visiva sul gioco letterario delle sorelle, che avevano iniziato da bambine insieme al fratello Branwell, si chiamava Scrittura segreta. Qui la calligrafia diventava paesaggio e mappatura dei luoghi della loro e della mia infanzia. Ho continuato ad usare la calligrafia nelle mie ricerche successive.
AC: Alcuni anni fa, trattando sul sito Società delle Letterate, sempre in riferimento alla poesia di Gabriella Musetti ha scritto: “La poeta statunitense Adrienne Rich parlando alle studentesse del suo rapporto con la scrittura poetica dice: “si dovranno trovare punti di incontro, luoghi nei quali l’energia della creazione e l’energia dei rapporti potranno convivere, e noi ne scopriremo sempre di più” (Segreti, Silenzi e Bugie, La tartaruga, Milano 1982, p. 35)”. Come si contestualizza questa citazione nella sua produzione e nello specifico nell’installazione Donne con le ali, (2011-2018 work in progress) sulle donne straniere che hanno curato sua madre.
DF: Le parole di Adrienne Rich per me sono la sintesi di quello che io intendo per pratica artistica come azione trasformativa, necessaria alla vita. Fare convivere l’energia della creazione con l’energia dei rapporti, tenerle in tensione, è la novità e la ricchezza del contributo delle donne alla storia della cultura. È quello che ho trovato in La manutenzione dei sentimenti e in Un buon uso della vita di Gabriella.
Non si può vivere senza esprimersi. Il legame con la creatività non riguarda solo l’arte, riguarda l’umano. Per me la creatività artistica deve essere a servizio della vita, immersa nel quotidiano, per creare connessioni e tessere relazioni. Mi ha aiutato molto nella cura di mia madre, nella sua lunga vecchiaia, e nel rapporto con le donne straniere, le Donne con le ali, che sono vissute con lei negli ultimi anni della sua vita.
Nel rapporto con queste donne, spesso problematico e complesso, ho cercato di mettere in moto una relazione che andasse oltre il mio bisogno di essere aiutata nella cura di mia madre e la loro necessità di guadagnare per mantenere i figli che crescevano lontani. Ho fatto leva sulla creatività che ciascuno/a di noi possiede. Ho scoperto che molte di loro si esprimevano con la poesia. Maria, ucraina, ha scritto dei pensieri poetici nella sua bellissima calligrafia su leggeri fogli di carta di riso con i quali ho creato delle scarpette, le sue “ali”. Le scarpette di Emi del Bangladesh, sono ricoperte dai segni eleganti e suggestivi della lingua Urdu, che Emi mi ha insegnato. Lei oggi fa la mediatrice culturale, e ha raccolto anche le poesie di altre donne del suo paese. Mariana, giovane madre moldava, mi ha regalato i quaderni di scuola che il suo bambino le inviava come restituzione e ricompensa per la sua fatica e la sua vita da esiliata. Mia madre, che era stata insegnante ammirava la calligrafia regolare e ordinata dei temi e degli esercizi corretti in rosso dalla maestra.
Mia madre amava molto la lettura e la poesia. Anche nella sua estrema vecchiaia teneva sempre un libro in mano, era il suo ancoraggio alla vita. Ho fatto leva su questa sua passione per starle vicino con leggerezza: leggevamo ad alta voce delle poesie, che lei poi trascriveva su dei foglietti leggeri che le porgevo. Più di duecento poesie sono state trascritte, in un certo senso riscritte da lei. Con quella scia di foglietti che recano la traccia della sua mano ho fatto un’installazione: Viatico, quello che serve per il viaggio.
Le calligrafie di Emi e Maria, che appaiono sulle scarpette di carta, la calligrafia dei quaderni di scuola del figlio di Mariana, sono le tracce fisiche di storie che si intrecciano a quella di mia madre e alla mia, così lontane e così vicine, dove l’incontro avviene in una sorta di co-creazione.
AC: Qual è il messaggio ultimo, quella che in futuro vorrebbe fosse la sua eredità artistica?
DF: Donne con le ali è la testimonianza di come la creatività e il fare arte aiutino a creare spazi vitali di connessioni e relazioni trasformative per mettersi in ascolto, dare senso e arricchire la vita, metterne a fuoco la bellezza.
Lo scopo dell’attività artistica per me non è tanto arrivare a un prodotto, ma innescare processi vitali, dove il lavoro artistico è tramite di esperienze, ha una qualità relazionale.
“Esistere significa tessere una trama di relazioni, ma poiché la tessitura è una forma d’arte, significa anche avere esperienza della poesia” Sono parole di Maria Lai una delle mie artiste preferite.
A proposito della poesia di Gabriella Musetti. Una recensione di Marina Giovannelli

Il titolo della recente pubblicazione di Gabriella Musetti, “Un buon uso della vita”, Samuele Editore, mi suona subito familiare, e capisco perché. In linea infatti con quello della silloge precedente, “La manutenzione dei sentimenti”, ripropone il corto circuito fra due aree semantiche antitetiche: quella relativa al ‘fare’, (‘uso’, ‘manutenzione’), di solito attribuito alle macchine, alla funzionalità, e l’altra invece pertinente alla più complessa e indecifrabile sfera della psiche e degli affetti. È una bella invenzione retorica (non so decidere se ossimoro o sinestesia o altro) con effetto destabilizzante e labirintico nella interpretazione delle poesie. ‘Destabilizzante’ perché impone di non fermarsi al primo livello di lettura, la narrazione drammatica delle diverse morti di donne, casuali o meno, banali sempre, insignificanti prese ciascuna per sé, ma di cercare l’“uso” che di quelle vite spezzate è stato fatto. ‘Labirintico’ perché porta in più direzioni: il nesso che unisce quelle donne e quelle morti, e anche la relazione fra loro e chi ne scrive.
Siamo nella complessità, ma un aiuto all’intelligenza viene dalla prima poesia, in cui l’idea che autobiografia possa essere solo collettiva (acquisizione che il femminismo ha reso definitiva) apre all’interazione fra vita propria e mondo. Fa parte di sé l’incontro con gli altri, in questo caso si privilegia quello con le altre per una affinità di destino di donna che si andrà precisando poco a poco nei versi, ma la cui consapevolezza evidentemente è maturata nel tempo in chi si guarda attorno e non permette al caso e all’indifferenza di cancellare quanto si vive, si condivide, si com-patisce. Inoltre, nella seconda poesia si chiarisce di non provare interesse tanto per l’origine della parola quanto per ciò che in parola si può sperimentare di vitale, e anche questa affermazione contribuisce a orientare la comprensione in direzione della concretezza esperienziale.
Ed ecco la serie delle morti, o meglio delle vite al loro esito. Non un elenco di figure alla Spoon River, ma un’interrogazione sulla tremenda solitudine che caratterizza l’esistenza di queste donne, l’estraneità alla pienezza che sembra connotarle tutte (anche laddove un carattere più aperto parrebbe fare eccezione resta comunque da parte altrui un tratto di indecifrabilità).
Da cosa derivi questa condizione non è facile dire. Certo siamo tutti, uomini e donne, segnati dalla piaga dell’incompiutezza. Unici nel mondo animale non abbiamo specializzazione che ci salvi, siamo i più sprovveduti, i più indifesi. Si chiama neotenia, è un dato scientifico. Di questo si è potuto fare una mitologia, una religione della caduta. Lo sappiamo bene.
Ma per le donne c’è dell’altro, meno riconosciuto, anzi, spesso del tutto deliberatamente ignorato o rifiutato anche quando venga proposto all’attenzione. Questa piaga occulta che aggrava ulteriormente la difficoltà del vivere, da millenni viene attribuita a una minorità o addirittura a una colpa della donna, che ne viene perciò demonizzata, o al contrario idealizzata, così che non è mai completa in sé: irreale o perversa, sempre sola.
Si tratta di storia, di cultura, di vicende oscure così remote che sono diventate connaturate al pensiero (almeno nel nostro mondo), da cui è difficile sganciarsi.
Per questo trovo straordinaria la scelta che ha fatto l’autrice di scrivere dei versi non tanto per le donne che hanno rifiutato la logica imperante, quelle irriducibili, quelle “imperdonabili” (cito Boella più che Campo per le sue scelte letterario-filosofiche) estreme e ribelli che hanno osato sottrarsi a un destino scontato, quanto per quelle che non hanno saputo (potuto, voluto) farlo. Loro siamo noi, donne che si illudono, che soffrono e ridono e piangono e vanno avanti, comunque. Le loro vite e morti rientrano nell’ordine ‘naturale’ delle storie, anzi, non fanno storia, anzi, fanno la storia senza storia che si conduce ogni giorno.
Forse ho razionalizzato troppo i versi, che hanno meriti grandi nel visualizzare sentimenti e attese, con espressioni forti e precise come bisturi. Penso alla donna che “è volata via sopra una rondine”, o all’altra “morta al supermercato tra la folla / da sola”, o ancora a quella che si illudeva di tenere tutto sotto controllo che “gestiva la sua vita con fermezza” (a mio avviso particolarmente struggente a fronte dell’immane sforzo di molte per non dare a vedere il proprio malessere. Ho assistito a una presentazione video in cui il presentatore sosteneva che: “le donne ridono perché sono felici”…).
Nel nominare tutte quelle che hanno continuato la loro esistenza nell’attesa e nella speranza “che proprio un mattino si desti / un destriero di luce” Musetti ha dato consistenza e dignità a tutte le condannate all’insignificanza, praticando quell’empatica pietas che solo uno sguardo diverso può dare. Ne parla come di un’infima fessura” da riconoscere per meglio capire, di “scarti di vita minimi” da saper cogliere. Non è da tutti, ma qui il tentativo è pienamente riuscito.