Augusto Perez è scomparso nel 2000, a pochi mesi dalla sua morte fu inaugurata, negli spazi di Castel dell’Ovo, una grande mostra antologica, che ebbe un notevole successo e riuscì a coniugare la completezza della ricostruzione storica e il rigore filologico con la grandiosa forza visiva delle sue sculture. Il merito di quella manifestazione si deve, in larga parte, alla figura di Vitaliano Corbi, uno studioso la cui attività è stata fondamentale per la comprensione dell’arte contemporanea a Napoli e che si è fortemente battuto per evitare che le mode e i fenomeni puramente mercantili dell’arte divenissero l’unica forma di espressione possibile.
Nel 2010 l’Accademia di Belle Arti di Napoli ha avuto il merito, nell’ambito del ciclo su I Maestri, di riportare l’attenzione su Perez, con una mostra che non solo ripercorreva un tratto della sua carriera, ma sottolineava il rapporto tra l’insegnamento e la realizzazione delle opere. Per il resto in questi anni, a Napoli, c’è stato molto poco.
Questo breve intervento, che riguarda i disegni e le incisioni dell’ultimo decennio di vita dell’artista, vuole essere anche un contributo a una relazione tra Perez e la sua città d’adozione, un rapporto che dovrebbe costituirsi sulla base di un’aperta attività di indagine e di conoscenza, a partire dalle opere che sono qui conservate nelle collezioni permanenti. È in questo modo che si potrebbe offrire una fruizione ampia e consapevole, in primo luogo per i cittadini napoletani.
Durante gli anni Novanta Perez si è dedicato, con continuità, alla realizzazione di un consistente numero di disegni su tavole in laminato plastico. Le motivazioni di questa scelta risiedono in un rapporto molto più libero rispetto al lavoro sulle sculture, che era vissuto in maniera estremamente problematica e conflittuale, fino a raggiungere accenti di intensa drammaticità. Il disegno è “il luogo dell’azzardo” ha dichiarato l’artista, cioè un territorio nel quale è possibile inoltrarsi in maniera arrischiata, senza prevedere in anticipo l’esito perché si è lasciata da parte la rete di protezione del tema, del progetto o della commissione.
I disegni di questi anni non formano una sezione marginale dell’opera di Perez e, malgrado le occasioni di esposizione pubblica siano state ridotte, ne è apparsa evidente la straordinaria qualità d’immagine e la ricchezza di rimandi.
La superficie delle tavole è bianca, l’artista ha affermato che questo bianco del supporto corrisponde ad uno stato nebuloso della mente, è necessario allora uno spunto visivo che forzi l’immagine all’emersione dalla compatta uniformità cromatica del laminato e accenda un processo visionario e quasi allucinatorio. Questo innesco è fornito da una stesura informe di grafite che viene poi stemperata con le dita e la saliva fino a ottenere una macchia e quindi a vedere nella macchia qualcosa. Il collegamento tra macchia e immagine è noto e ampiamente studiato sia nell’arte, sia più in generale, nella psicologia, ma Perez lo interpreta in maniera del tutto personale. Come si diceva si tratta di una pura scintilla iniziale, il risultato finale è il frutto di un lungo lavoro di scandaglio che, attraverso cancellature e profonde alterazione, modifica notevolmente la prima idea, inoltre la macchia viene sempre letta nei termini dell’ombra di qualcosa. In una intervista del 1992 Perez riportava una frase di Arturo Martini il quale dopo aver gettato un pugno di creta su una superficie, rivolgendosi ai suoi studenti, disse: «Il volume ha determinato un’ombra, l’ombra è la scultura». Riflettendo per lungo tempo su questo episodio, gli apparve di essersi sempre esercitato sulle ombre e, per quello che riguarda il disegno «partendo da una macchia e cercando di vedervi l’ombra di qualcosa». L’ombra, in questo senso, è certamente un fatto visivo e istituisce un rapporto tra ciò che è anteriore e ciò che è posteriore, tuttavia non nei termini dell’illusorietà, ma come spazio delle forme. Quasi sempre nei disegni ci sono linee che suggeriscono una definizione di spazio, all’interno del quale sono collocate le forme, con una concezione non troppo distante dalla distinzione tra spazio e ambiente come è stata individuata da Cesare Brandi.
Il segno grafico mostra una viva sensibilità che dalle più sottili vibrazioni si apre su nitide tensioni o ritorna su sé stesso nei risentiti grovigli che si avvicinano alla violenza della cancellatura.
Tra la macchia e la creta c’è una stretta relazione che si manifesta con un’accentuata propensione plastica. «[Il disegno] lo trovo con facilità usando le mani, cioè la parte del mio corpo che è abituata a toccare e a fare le sculture. Nei disegni io uso sì la matita, ma poi soprattutto le mani», questa dichiarazione, contenuta in un’intervista a Gabriele Simongini del 1992 chiarisce che le dita modificano la creta nello spazio come la grafite sul piano bianco dei laminati in un serrato corpo a corpo con la materia che cerca di farsi strada nella penombra.
Sculture e disegni sono anche accomunati dalla rifusione di una cultura d’immagine che trascrive i rimandi al mondo dell’arte nella prospettiva di una problematizzazione e di un’acuta sensibilità della crisi del mondo contemporaneo. Nel disegno c’è una lirica ed erotica malinconia che evoca Rodin, mentre risuonano di echi classici i volti. La presenza ricorrente di cavalli è, d’altra parte, un forte richiamo alla scultura equestre e a quello che ha significato nella storia dell’arte, cosi come i piedistalli o le due piccole sculture candelabro attraverso un rapporto di auto riflessività che è stato per primo messo in evidenza da Corbi.
Nel 2000 Il Laboratorio di Vittorio Avella ha realizzato una cartella di incisioni di Perez, ispirate ai rebus. Edipo e la Sfinge, che già si affrontavano in una grande scultura del 1981-’83, compaiono in un contesto quasi metafisico, dove in primo piano si accampano una scultura che promette di diventare acefalo frammento e una malinconica Nike domestica. Sono immagini che appartengono ad una dimensione privata, con un tratto disegnativo di straziante liricità e nelle quali l’enigma del rebus si rispecchia nell’enigma della Sfinge, che diventa quello dell’arte.
Infinitimondi è una Rivista che intende contribuire a raccogliere idee, a promuovere riflessioni, a sviluppare confronti intorno al tema di fondo della condizione umana contemporanea: non è accettabile, perché non vero e perché non giusto, che questo sia il migliore dei mondi possibili, che quella attuale sia l’unica Storia possibile, che il pensiero abbia raggiunto il suo limite. I Mondi sono Infiniti. E Infinita può essere la ricerca di pensieri di Libertà.
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Massimo Tartaglione
Critico d’arte. Dopo la laurea in lettere moderne si è interessato ai problemi della museologia ed in particolare al rapporto tra i musei d’arte contemporanea ed il mercato dell’arte, studiando il caso della GAM di Bologna. Ha curato mostre collettive e personali a Mosca, San Pietroburgo, Tokyo, Vienna e Napoli. Ha collaborato con l’Istituto Italiano di Cultura di Mosca per la realizzazione di una mostra documentaria sullo scultore Augusto Perez al Museo Majakovskij. Attualmente è docente di Storia dell’arte.
Augusto Perez nacque a Messina il 1° gennaio 1929, da Camillo, funzionario di banca, originario di Caltagirone, e Piera Belluco, milanese.
Nel 1936 si trasferì a Napoli con i genitori e la sorella Gesuina. Frequentò il liceo classico e contestualmente, durante un viaggio a Milano, ebbe inizio la sua passione per la scultura: conobbe le opere di Adolfo Wildt e ritrovò nel cimitero monumentale quelle di Leonardo Bistolfi, che lo avevano profondamente impressionato sin da giovanissimo. Nel 1946, per dare risposte alle sue passioni, approdò nello studio dello scultore Ennio Tomai; ben presto iniziò a viaggiare per visitare mostre e musei. Nel 1948 non mancò alla XXIV Biennale di Venezia, dove poté vedere la collezione Peggy Guggenheim, le personali di Henry Moore, di Picasso, di Aristide Maillol, la retrospettiva di Arturo Martini e le sale di Marino Marini e di Giacomo Manzù, tutti artisti sui quali meditò a lungo, soprattutto nei primi lavori.
Nel 1949, completato il liceo, si iscrisse alla facoltà di architettura dell’Università di Napoli e conobbe Teresa Zoina, che sposò quattro anni dopo.
Sin dai primi tempi universitari entrò in contatto con gli ambienti letterari e artistici del capoluogo campano; frequentò biblioteche e storici dell’arte, in particolare Ferdinando Bologna e Raffaello Causa. Sempre in quel tempo conobbe Vitaliano Corbi, con il quale si confrontò per tutta la vita.
Nel 1950, lasciato lo studio di Tomai, ma ancora vivo in lui il sogno della scultura, iniziò a lavorare da autodidatta, cimentandosi su quanti riteneva i suoi maestri ideali, da Rodin a Medardo Rosso, da Picasso a Giacometti; nel contesto napoletano predilesse Achille D’Orsi a Vincenzo Gemito.
Nel 1951 esordì a Napoli in una collettiva di giovani artisti con l’opera Venditrice di sigarette (1950, gesso policromo, distrutta); riscosse subito i consensi di Vasco Pratolini, Paolo Ricci e Causa, che lo incoraggiarono a proseguire nella scultura. Dopo poco, nel 1952, abbandonò l’università. Conseguito nello stesso anno il diploma di maturità artistica da privatista, si trasferì a Terracina, dove insegnò calligrafia e disegno alle scuole di avviamento professionale e qui visse per quattro anni con la moglie. Nell’ottobre 1952 nacque il figlio Massimo.
Il 1954 fu un anno particolarmente significativo: la galleria Blu di Prussia di Napoli organizzò la sua prima personale; l’anno successivo Renato Guttuso e Ricci presentarono la gran parte dei suoi lavori, tutte opere chiaramente volte alla poetica neorealista, in occasione di una seconda personale allestita presso la galleria Il Pincio di Roma. Ancora a Roma fu invitato alla VII Quadriennale, dove vinse un premio della giunta provinciale della capitale.
Tornato definitivamente a Napoli nel 1955, anche grazie ad Armando De Stefano, fu chiamato all’Accademia di belle arti di Napoli come assistente alla cattedra di scultura tenuta da Emilio Greco.
Nelle opere dei primi anni Cinquanta quasi tutti gessi e bronzi documentati solo fotograficamente perché distrutti dallo stesso Perez – rimangono i bronzi di Ragazza che taglia il pane (1953, Bagheria, Civica Galleria d’arte moderna e contemporanea Renato Guttuso; pubblicata in A. P.: Il mito della scultura, Napoli 2000, p. 72; a tale testo si rimanda per le riproduzioni delle opere citate, ove non diversamente indicato), Testa che ride (1953, ivi), e Ragazzo con pane (1954, Modena, coll. priv.) –, ben si avvertiva il suo riflettere sulla funzione dell’arte nella nuova Italia e sulla crisi del rapporto tra arte e realtà, con l’intento di comprendere gli aspetti più drammatici dell’uomo. E in questo trovava sostanza la sua capacità di intendere le avanguardie e la fine della grande tradizione plastica occidentale.
Nel 1956, al tempo dei fatti d’Ungheria, Perez restituì la tessera del partito comunista. In quello stesso anno partecipò alla XXVIII Biennale di Venezia con Donna con bambino in bicicletta (1955, gesso, disperso), dove si colse il suo tendere al di là delle secche del realismo. Da quel momento, e per tutta la seconda metà degli anni Cinquanta, modellò principalmente acrobati, funamboli, re e regine, passando dalla rappresentazione della realtà alla rappresentazione di «un mondo che include in sé la dimensione dello spettacolo, dove la vita è in qualche modo già essa rappresentazione» (M. Corbi, 2000, p. 79).
Nel 1957, mentre iniziava a prender parte a rassegne e mostre – tra cui il premio Gemito, la Biennale di scultura di Carrara, e l’esposizione «Scultura italiana del XX secolo» alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma –, conobbe Mario De Micheli e Cesare Brandi, che a lungo seguirono il suo lavoro. L’anno successivo le sue opere furono presentate ancora a Roma (galleria La Bussola), a Spoleto («Sculture nella città») e a Milano (personale alla galleria Le Ore e collettiva «Giovani Artisti Italiani» alla Permanente). In soli cinque anni, dal 1959 al 1964, fu invitato alla gran parte delle mostre nazionali e fu presentato a Parigi, Londra, Copenaghen, Berlino, Liverpool, Grenoble e San Paolo del Brasile. Da quel momento la sua attività espositiva crebbe a ritmo serrato sino alla fine degli anni Novanta.
I primi anni Sessanta furono segnati da una svolta decisiva: con i Trofei prima, e la serie degli Specchi poi, Perez non trattò più il reale, né la sua rappresentazione, ma volle porre la scultura dinanzi alla propria immagine, riportando nel presente la memoria e l’impronta del passato. Parte dei Trofei fu presentata nel 1962 alla galleria L’Obelisco; molti degli Specchi più significativi furono esposti nel 1966 in una personale allestita alla XXXIII Biennale di Venezia.
Cesare Brandi, che aveva già presentato Perez alla Quadriennale del 1959, che aveva scritto sui Trofei (1962) e curato il testo di presentazione della personale alla Biennale, dette subito un’interpretazione esistenziale di quelle opere (così, tra gli altri, anche Marco Valsecchi, Leonardo Sinisgalli, Giovanni Testori e Carlo Volpe), lettura data anche al Grande Narciso (1966, bronzo, Napoli, Galleria dell’Accademia di belle arti), perno della sala di Venezia, che riassumeva in sé il dramma dell’esistenza umana. Nei primi anni Settanta Vitaliano Corbi, non negando la componente esistenziale, avrebbe messo in evidenza il movimento autoriflessivo di quei lavori, ossia il ritorno della scultura su se stessa. La medesima componente si ritrova anche in altre opere della seconda metà degli anni Sessanta, come le Erme, gli Apollo, gli Edipo, le Sfingi, i Narciso e i Luigi XIV, in cui la scultura racconta la propria storia e «raccoglie i suoi cimeli e i suoi stracci», mentre prende voce una «resistenza opposta ad una disfatta che riguardava innanzi tutto la scultura stessa, l’obsolescenza dei suoi linguaggi e l’inadeguatezza del suo ruolo nel mondo contemporaneo» (V. Corbi, 2010, p. 29), temi che lo stesso Perez in qualche modo affrontò in una riflessione sullo spazio della scultura, pubblicata nel 1968 su Op. Cit. (n. 12, pp. 45-49), rivelando inoltre la sua passione per Thomas S. Eliot.
Anticipando gli esiti del decennio successivo, gli anni Sessanta si chiusero per Perez con una meditazione sul corpo e sulla resurrezione della carne, come si coglie nel bronzo Modello per l’Accademia, che richiama la tradizione iconografica della Resurrezione di Cristo e di Lazzaro (1969, disperso).
Testori, presentando i lavori della fine degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta, parlò di un «cimitero» i cui morti rodevano «con la proditorietà delle talpe […] le lastre dei loro sepolcri» (1986, p. 5).
Nel 1970 Perez aveva vinto il concorso per la cattedra di scultura ed era stato nominato titolare all’Accademia di belle arti di Urbino, ma fu assegnato a Napoli, dove passò di ruolo nel 1980 e lavorò fino al 1996 (Ruotolo in A. P., 2010, p. 105). Durante la prima metà degli anni Settanta Perez non rinunciò a trattare pure il tema del doppio che già lo aveva condotto agli Specchi, concentrandosi, tra ambiguità, malinconia ed erotismo, sulle possibili sintesi e doppiezze del corpo e dell’anima. Di qui si dedicò al corpo dei centauri (si vedano il Grande Centauro del 1970, bronzo, coll. priv., e quello del 1974, bronzo, Napoli, Ipsema); successivamente lavorò su ermafroditi e sirene.
Negli stessi anni viaggiò in Italia e all’estero; nel 1974 si recò in Grecia, luogo d’origine di tutti i suoi ideali, al contempo amata e temuta. Al ritorno modellò la Crocefissione dall’Apollo del Belvedere (1974, bronzo, Napoli, Museo del Novecento), che sin dal titolo rivelava il processo di contaminazione iconografica messo in atto e spinto ormai molto oltre, fino a includere riferimenti ai monumenti ai caduti o anche alle icone dei film o della moda, come rivela, ad esempio, la capigliatura dell’Apollo-Cristo-Superstar (M. Corbi, 2000, p. 120). Sempre nel 1974 ricevette il premio per la scultura dall’Accademia di S. Luca.
Sul finire degli anni Settanta, la produzione plastica si diradò, ma prima che si chiudesse il decennio Perez lavorò a Crepuscolo (1978, bronzo, Milano, Studio Copernico), una delle sue opere più importanti, anche per le risonanze autobiografiche.
Negli anni Settanta – letti da De Micheli come il decennio in cui l’artista mostrò una «più aperta e indifesa disponibilità verso la vita» (1981, p. 250) –, Perez partecipò a concorsi e fu invitato a realizzare opere d’arte pubblica (Cassese, 2010); eppure, come tenne sempre a precisare, la sua era una scultura privata, per quanto privilegiasse il grande formato. Tra le opere cui si dedicò si ricorda il monumento ai caduti di Capri, al quale lavorò dal 1979 al 1981 e che tuttavia un comitato locale chiese di rimuovere perché troppo drammatico (M. Corbi, intervista inedita del 1997). Successivamente il bassorilievo fu trasportato presso i Giardini di Augusto, dove ancora oggi si trova.
Nei primi anni Ottanta Perez attese a La porta della notte, che terminò nel 1983 (bronzo, Milano, Studio Copernico) e che nacque dalle riflessioni sul tema della morte avviate con il citato monumento di Capri.
Qui, tra rimandi che si moltiplicano e che riportano continuamente alle figure di Edipo e della Sfinge, rivelò un atteggiamento meno impulsivo e un desiderio di meditare ancora sulla scultura, sull’isolamento della massa e sulla compostezza del volume.
Intanto, nel 1982, in occasione della I edizione del premio di pittura e scultura ‘Corrado Cagli’, fu indicato dalla critica tra i primi cinque artisti italiani, insieme ad Alberto Burri, Mario Schifano, Emilio Vedova e Piero Guccione. Nel 1986 fu eletto accademico dei Virtuosi del Pantheon.
Senza mai tralasciare la scultura, nel corso degli anni Ottanta si rivolse con crescente interesse al disegno e alla grafica, che da sempre aveva frequentato come luoghi dell’avventura e dello studio, liberi dalla realizzazione delle opere.
Per circa un ventennio, fino alla fine degli anni Novanta, «con una rinnovata fantasia visionaria», Perez realizzò una serie di opere «segnate da un’eccezionale carica spirituale» (M. Corbi, 2010, p. 35), sculture che ancora alludevano al dolore, alla solitudine, alla ricerca della verità, e in cui tornava alla mitologia e alla religione, come indicano alcune delle icone più emblematiche di quegli anni: il Cristo crocifisso e l’Apollo morto.
Ancora una volta, nonostante la costante riflessione su temi religiosi – la Crocifissione e la Deposizione tra tutti – non si avvertì alcun «processo di idealizzazione dell’immagine» (V. Corbi, 2010, p. 36). Si veda, in particolare, Crocifissione-deposizione, realizzata tra il 1986 e il 1993 (bronzo, Milano, Studio Copernico; gesso, Napoli, Galleria dell’Accademia di belle arti, in Napoli 2000, p. 91).
Ai temi della forza della natura e dell’ineluttabile scorrere del tempo dedicò le grandi sculture monumentali dei primi anni Novanta – Nostalgia (1990, bronzo, Milano, Studio Copernico), Grande Meridiana (1991, bronzo, ivi), Kronos (1991, bronzo, ivi), Terrae Motus (1992-1993, bronzo, ivi) – e il ciclo in piccolo formato delle dieci Meridiane, che si aprì con Al sole della Grecia (Meridiana n. 1), emblema del cuore dell’Occidente, e si chiuse con Meridiana tragica, metafora del tramonto della civiltà (1991, bronzi, coll. priv., in A. P.: opere 1981-1991, Torino 1992).
Nel 1997 Perez lavorò a ebe, simbolo delle ricerche di una vita, in cui riprese, stravolgendola, la tipologia del monumento funebre e giunse all’incontro tra Edipo e la Sfinge (ormai fusi insieme in un unico corpo al tempo stesso dolorante e feroce), ritornando a riflettere sulla scultura come spazio dove sono imprigionati modelli antichi, incubi e creature contemporanee (Napoli, Metropolitana, stazione Salvator Rosa, parco delle sculture; Napoli, Galleria dell’Accademia di belle arti).
Una grande mostra monografica a lui dedicata fu progettata dal Comune di Napoli nell’aprile 2000; Perez lavorò attivamente per la selezione delle opere accanto a Vitaliano Corbi, cui fu affidata la curatela insieme a Giuseppe Morra, ma poco prima dell’inaugurazione, l’8 novembre, morì nella sua casa-studio nel Palazzo dello Spagnuolo a Napoli.
[Fonte: https://www.treccani.it/]